Al Polo nord per capire i cambiamenti climatici

Le Isole Svalbard dall’aereo sono impressionanti: montagne coperte di neve e ghiacciai che sfociano nel mare, candore ovattato da strati di nuvole bianche e reso splendente da un sole che non vuole tramontare. Io e un altro ricercatore italiano stiamo per atterrare a Longyearbyen, dove ci im- barcheremo sulla nave dell’Accademia delle Scienze Polacca per una campagna oceanografica nel Mare Artico. D’estate, a queste latitudini, il sole non cala per quattro mesi e non vedremo il crepuscolo fino al nostro ritorno, cioè per le prossime 500 ore: un lungo giorno in cui far funzionare i nostri sofisticati strumenti per capire i cambiamenti climatici. È difficile descrivere il fascino di una campagna oceanografica. Pochi giorni fa, rispondendo ai giovani italiani a Loreto, il papa ha raccontato un aneddoto su uno scienziato ateo che, in montagna, non poteva far a meno di credere nell’esistenza di Dio. Una simile sensazione di immersione nell’infinito, nel silenzio, nella bellezza, la si prova nei lunghi giorni in cui si è sospesi tra l’azzurro del mare e l’azzurro del cielo, lontani da qualsiasi presenza umana tranne quella dei propri compagni di avventura. In nave non si ricevono televisione o radio, non arrivano i giornali, non si è connessi a Internet e il telefono satellitare è troppo caro per poter essere usato spesso. Per questo è naturale che la mente sprofondi lunghi minuti nella contemplazione della tavolozza di colori con cui la natura dipinge i paesaggi sterminati del Mare Artico. Per capire lo stato di salute di questa affascinante zona del pianeta, abbiamo portato dall’Italia un radar laser e uno spettrometro laser. Il radar laser funziona 24 ore su 24 e ci permette di misurare il fitoplancton alla superficie del mare. Lo spettrometro laser completa le informazioni del radar laser analizzando campioni di acqua prelevati a varie profondità (fino a centinaia di metri) con cadenze di qualche ora. In questo modo abbiamo una specie di radiografia del fitoplancton estesa nello spazio e nel tempo. Il fitoplancton è l’insieme delle microscopiche piante unicellulari che fluttuano nell’acqua e ci interessa perché è responsabile di importanti scambi di materia tra oceani e atmosfera: emette circa la metà dell’ossigeno che respiriamo e assorbe enormi quantità di anidride carbonica, il gas maggiormente responsabile dell’effetto serra che riscalda il nostro pianeta. La nostra radiografia del fitoplancton ci aiuterà a capire la sua vitalità e la sua capacità di contrastare l’effetto serra. Nel frattempo, i colleghi polacchi studiano le correnti oceaniche. Arrestano la nave in un punto e calano in mare precisissimi sensori, in modo da registrare temperatura, salinità e velocità dell’acqua dalla superficie al fondo (fino a qualche chilometro). Ripetendo queste misure in centinaia di punti, ottengono anche in questo caso una specie di radiografia delle correnti oceaniche. Con questa tecnica, hanno scoperto che nel 2006 la Corrente del Golfo, lambendo le coste occidentali delle Isole Svalbard, ha trasportato verso Nord un eccesso di calore capace di fondere 130 mila chilometri quadrati di ghiaccio dello spessore di un metro, contribuendo così alla spiegazione dello scioglimento della calotta polare. Le nostre ricerche si iscrivono nel quadro più ampio dell’Anno polare internazionale, indetto nel 2007-08 dall’Organizzazione meteorologica mondiale e dal Consiglio internazionale per la scienza. Si tratta di un vasto programma di ricerca, mirato a migliorare la nostra comprensione degli ecosistemi artici e antartici. Fa seguito agli anni polari internazionali indetti nel 1882-83, 1932-33, 1957-58 e vi partecipano migliaia di scienziati di oltre 60 nazioni. L’esplorazione dei Poli affascina l’uomo da secoli. Ne abbiamo avuto una prova quando la nave ha attraccato alla base scientifica internazionale di Ny-Ålesund dove ricercatori dei cinque continenti conducono i loro studi tutto l’anno ed è ancora visibile la stazione di partenza della sfortunata spedizione del dirigibile Italia, guidata da Umberto Nobile. Un monumento ricorda il sacrificio di Roald Amundsen (esploratore norvegese conquistatore del Polo Sud) caduto con il suo aereo nel 1928 durante il tentativo di soccorrere Nobile e i suoi uomini dispersi sui ghiacci. L’interesse per i Poli non è solo scientifico, come attesta la recente dimostrazione di forza della Russia che, il 2 agosto, ha inviato due navi e due batiscafi a piantare una bandierina in titanio sui fondali artici. Russia, Stati Uniti, Canada, Norvegia e Danimarca rivendicano infatti grandi spicchi di Artide. Alla base della contesa, gli enormi giacimenti di idrocarburi (equivalenti a circa 1/4 delle riserve mondiali) che si renderebbero disponibili allo scioglimento della calotta polare. Purtroppo, manca per il Polo Nord un trattato internazionale simile a quello entrato in vigore per l’Antartide nel 1961. Per noi che stiamo lavorando con ben altre finalità che il lucro o la definizione delle zone di influenza strategica, questi problemi, che pure conosciamo, sembrano appartenere ad un altro pianeta. L’incanto di ambienti remoti e lo stupore di fronte alla natura sono il denominatore comune del campione di umanità, 12 marinai e 12 ricercatori, imbarcato sulla nave e praticamente isolato dal resto del mondo per lunghe settimane. Pur nella continua attività, 24 ore su 24, il tempo rallenta, abbandona il ritmo frenetico e si aprono spazi di dialogo, ben più ampi dell’inglese scientifico. La fraternità nasce spontanea dalla condivisione delle difficoltà come lo spazio ristretto nella nave, i guasti alla strumentazione, il mare grosso che rende difficile mangiare e dormire… Forse per questo, quando l’aereo decolla da Longyearbyen, la gioia di tornare a casa si mescola con una dolce nostalgia di infinito.

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