Al maggior tempio sikh d’Europa

Sono a Birmingham, seconda città del Regno Unito, anche se qui ci tengono a marcare la loro differenza: il West Bronswich non è Birmingham, ma un quartiere con la sua autonomia. Arrivo ad un edificio insolito, sormontato da decorazioni a citi, polla bianche e argentee, di gusto tutto orientale: il Guru Nanak Nishkam Sewak Jatha. Nirmal Singh mi accoglie, un giovanottone dalla lunga barba nera e dal sorriso perenne sulle labbra, public relation man del tempio e del leader Bahi Sahib Ji. Il grande palazzo ospita quattro sale di preghiera e altri locali per la celebrazione dei matrimoni e dei battesimi. Non mancano le aule per il catechismo. E nemmeno, è ovvio, le cucine e le sale da pranzo: ogni weekend, in queste sale viene servita la bellezza di 25 mila pasti caldi, vegetariani e gratuiti, alternandosi in lunghe teorie un ricco e un povero. La nostra vita prende il volo verso Dio – mi dirà più tardi Bahi Sahib Ji – grazie a due ali: la preghiera e il servizio. L’una non funziona senza l’altro. Ed è quello che succede in questo tempio sikh, che riunisce i circa 25 mila fedeli della città, e tanti altre decine di migliaia che vivono in Gran Bretagna, 500 mila circa. Colpisce la delicatezza e lo spirito di accoglienza dei sikh che incrocio negli angusti corridoi e nelle scale ripidissime che attraversano il palazzo verticalmente, senza che ne si capisca la logica. I locali sono rivestiti – pavimenti, pareti e soffitti – da pannelli di finto marmo di dubbio gusto, ma che vuole dare un senso di rispetto e dignità ai luoghi sacri, senza sfociare nel lusso. Certo è, tuttavia, che di soldi la comunità ne raccoglie, se è vero che ha provveduto alla sostituzione delle lamine d’oro del tempio sacro di Amritsar. Anche nel tempio di Birmingham la Sacra Scrittura viene custodita e letta ad alta voce 24 ore su 24. Il mio accompagnatore specifica: La nostra è una filosofia di vita che spinge ad essere dei veri fedeli: se sei indù, devi essere un vero indù; se sei musulmano devi essere un vero musulmano. Racconta la storia di uno dei nove guru che chiese ripetutamente ai fedeli se ci fosse qualcuno disposto a dargli la sua testa. Solo dopo innumerevoli tentativi, una persona umile si offrì. A quel punto il guru disse che quel gesto doveva essere comune a ogni fedele sikh: dare la propria vita per l’altro. I fedeli, prima di penetrare nel tempio passano la mano sui tre gradini all’entrata. I vecchi lo fanno con solennità e lentezza, mentre i giovani sfiorano appena i gradini e scappano via verso il mondo. È una comunità ben integrata, quella sikh: da una finestra vedo sfilare uomini in turbante e donne velate sullo sfondo di tipiche abitazioni inglesi di mattoni rossi. Attorno all’edificio, poi, c’è un negozio di ferramenta e carpenteria, gestito dai sikh in cooperativa, fondato nel periodo della grande crisi degli anni Ottanta. Poi due cantieri: viene restaurato un centro educativo e costruito ex novo un centro civico con palestra, sale di riunione, mostre, librerie, internet point. Sono tre le priorità sociali dei sikh: educazione, lavoro e vita civile. Nella torre del tempio, una piccola sala di preghiera rivestita di frammenti di specchi cesellati a mano da un artista locale, volontario come tutti coloro che lavorano al tempio in modo saltuario o permanente, il mio accompagnatore mi spiega il senso del loro motto: Dio è uno, ed ogni cosa viene da lui. È l’introduzione all’incontro con Bahi Sahib Ji, che avviene in uno studio modesto, come tutto, dove riceve nella giornata coloro che desiderano parlargli. Trovo un personaggio dalla straordinaria dolcezza, ma pure dalla straordinaria forza. Le sue risposte alle mie domande non sono che citazioni della loro scrittura. Dopo il pranzo, consumato sulle stoviglie d’alluminio dei più poveri, Bahi Sahib Ji mi accompagna fino all’auto. E non si gira finché non sono sparito all’orizzonte. Sincerità e misericordia.

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