Al-Jazeera: Basta migranti, chiamiamoli rifugiati

La televisione del Qatar fa una riflessione sulle tragedie del mare nel Mediterraneo e sceglie di non usare più la parola “migrante”, insufficiente a descrivere l'orrore di questi mesi. Ma non tutto il mondo dell’informazione è d’accordo
Migranti siriani al confine con la Serbia

Calatevi nei panni di un genitore che mette a rischio la propria vita e quella dei suoi figli imbarcandosi su un gommone per fuggire alle guerre: come ci si sente a essere chiamati “migranti”? La parola “migrante” ha la forza di descrivere la tragedia di chi è costretto ad affrontare le acque insidiose del Mediterraneo?


Sono queste domande ad aver spinto la televisione panaraba Al-Jazeera a rivedere il suo linguaggio, decidendo di preferire la parola “rifugiato” a quella di “migrante”. «Il termine ombrello "migrante" ormai non è più sufficiente per descrivere l’orrore che avviene nel mare Mediterraneo», scrive il blogger Barry Malone nel sito dell’emittente. «Si è evoluto dalle sue definizioni nel dizionario per diventare uno strumento peggiorativo che disumanizza e distanzia. Non sono centinaia di persone che annegano quando una barca affonda nel Mediterraneo, né centinaia di rifugiati. Si tratta di centinaia di migranti. Non è una persona – come te, piena di pensieri, storie e speranze – che cammina sui binari ritardando un treno. Si tratta di un migrante. Un fastidio».


Secondo Malone, la parola “migrante” è diventata ormai un termine “ombrello”, cioè un’espressione che abbraccia un’ampia sfera di significati e che quindi mette al riparo da ogni sforzo di maggiore precisione. In effetti, è un termine neutro, che non contiene nel suo significato le cause che danno origine alla migrazione. Da qui la decisione di Al-Jazeera di sostituirlo con il termine “rifugiato”, giudicato più idoneo per dare voce alle persone che soffrono, giacché – secondo la Convenzione di Ginevra – è applicabile «a chiunque, […] nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato».


La questione sollevata dalla televisione qatariota non è rimasta confinata all’interno della sua redazione, ma si è presto allargata a livello internazionale, coinvolgendo altre testate. «Le Monde», per esempio, è intervenuto nel dibattito – documenti e vocabolari alla mano –analizzando le definizioni dei due termini. «Ogni rifugiato è un migrante… ma non tutti i migranti sono dei rifugiati» è la conclusione del quotidiano francese che, tuttavia, lascia l’ultima parola a Louise Carr di Amnesty International: «Il termine “rifugiato” è molto preciso nel diritto internazionale, perciò noi lo impieghiamo solo in questo contesto. Ma è vero che il termine “migrante” assume una connotazione sempre più peggiorativa e si presta a situazioni molto diverse».


La scelta di Al-Jazeera, al di là del seguito che potrà avere, ha certamente il pregio di stimolare la riflessione sul significato delle parole, invitando a farne un uso più consapevole. Infatti, come sta scritto nella quarta di copertina di Parlare civile. Comunicare senza discriminare, un intelligente libretto a cura del «Redattore Sociale», «Non esistono parole sbagliate. Esiste un uso sbagliato delle parole».
 

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