Al Festival di Roma brillano i film stranieri

Non fa una gran figura l'Italia, con i "Tre tocchi" di Marco Risi. Molto meglio la Germania, con Phoenix di Christian Petzold, che racconta l'intensa e dolorosa storia di una sopravvissuta ai campi di concentramento
Andrea Iervolino

Forse erano in 50mila lo scorso week end al Parco del festival romano. Confusione bella e viva, insomma, il lato popolare della”festa” voluta da Veltroni  nell’ultima edizione targata Muller. Poi, nei giorni feriali, il calo inevitabile tranne per le scolaresche, e i critici affannati ogni mattina (molti di meno rispetto all’edizione passata).

E veniamo ai film. Certo, la nostra Italia una bella figura non la fa perché Tre tocchi di Marco Risi è una commedia sfilacciata che presenta personaggi senza uno sviluppo psicologico approfondito. Una carrellata sul sottobosco attoriale frustrato, inconcludente, con le manie, le gelosie, gli amori e gli egoismi in agguato anche nelle partite “amichevoli”. Amaro è questo ritratto, risolto in una sequenza di scene su ognuno dei sei personaggi in cerca di un provino, di un film, di un applauso. Sei storie accorpate dalla passione comune per il calcio – metafora della vita? – dove vincono gli scaltri, gli opportunisti, dove si soffre, si piange, ci si dispera, si fanno brutte esperienze: qualche volta si vince. Ma non basta descrivere, occorrerebbe anche scavare. Fra gli attori, comparsate anche di Sebastiano Somma, Luca Argentero, Claudio Santamaria e Paolo Sorrentino nei panni di sé stesso, non troppo  simpatico, purtroppo (nel film).

Meglio passare all’estero dove la Germania, ancora una volta, appare una decisa protagonista del festival e regala Phoenix di Christian Petzold. Nel 1945 la giovane ebrea Esther sopravvive al campo di concentramento, sfigurata. Una operazione la rende migliore, e lei cerca a Berlino il marito,che non la riconosce, anzi vuole usarla – per la somiglianza con la moglie che crede morta – per averne l’eredità, dopo averla tradita. Lei sta al gioco, pensando di ritrovare l’amore e invece trova il dolore e la solitudine. Raramente un film sui sopravvissuti all’Olocausto è stato così pregnante, sofferto, incisivo. Una regia attenta, lenta e teatrale, sobria nelle parole, lunga nei volti e  n un autunno specchio dell’anima riempie di poesia il dramma profondo di chi si sente ancora morire.

Giustamente premiato con il Marco Aurelio del Futuro è stato il regista russo Alexey Fedorchenko per la sua opera Angeli della Rivoluzione. Racconta la vera storia delle rivoluzione russa, lo sterminio delle etnie “diverse” attuato con logica ferrea dai giovani dirigenti del regime. Mondi incontaminati, culture secolari, bellezze naturali stravolte dalla violenza impositiva in un racconto dove fantasia, sogno, visione, crudeltà e magia convivono nel liguaggio reale-irreale del grande regista russo.

Poteva essere migliore Dòlares de arena delle dominicane Laua Guzmàn e Israel Càrdenas riproponendo la storia già vista della turista europea anziana, sedotta e abbandonata per soldi dalla coppia di giovani locali astutissimi. Il film è imperniato sulla performance coraggiosa di una invecchiatissima Geraldine Chaplin che mostra tutte le sue rughe impietosamente e il suo sguardo opacizzato nel nulla. È forse la parte migliore del film, oltre alla fotografia luminosa.

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