Al cinema dopo Cannes
Di Cosmopolis già ne abbiamo parlato, e non è male vederlo o rivederlo, per quanto a qualcuno sembri faticoso. È un film autoriale e ha il merito di non dire sciocchezze o fare proclami meta ideologici (come certi film cosiddetti autoriali, da noi e non solo).
Val la pena non perdere Marilyn, di Simon Curtis. Il film è patinato, ben fatto e recitato, in particolare da Michelle Williams, che si cala nei difficilissimi panni della star più invidiata da sempre e forse anche più infelice. Marilyn sembra una bambolina ingenua, che scopre la vita e se la gode, ma è appunto una bambola: fragile. Ma anche un gran professionista. La Williams entra in contatto con Marylin nella pelle e nell’anima: la somiglianza fisica ed emotiva è straordinaria. E perdona l’atmosfera televisiva del racconto: qualche amore per pochi giorni, i diverbi sul set, e così via. Un film profumato come una nuvola, a tinte pastello. Non un capolavoro ma un prodotto ben oliato, omaggio a una grande diva. Che resta misteriosa.
Azione e poi ancora azione negli altri prodotti. Attack the block, invasione aliena, firmato da Joe Cornish, è un simpatico horror adolescenziale franco-britannico. Un gruppo di ragazzotti-banditi sequestra e uccide un alieno-femmina. È una spavalderia da teenagers in crisi con la famiglia e qualsiasi autorità, amano la notte, le smargiassate, anche ai danni di una giovane infermiera. Ma i maschi alieni scendono a frotte a cercare la femmina. Adrenalina, sangue, horror, fughe precipitose, impossibili. Nessuno crede ai ragazzi, la polizia men che meno (al solito, i poliziotti o sono crudeli o scemi, nei film…). Che fare? Eppure, il gruppo riesce – non diciamo come – a uscirne fuori. Non sarà che l’horror è un pretesto per studiare un po’ di più il mondo adolescenziale, solo e abbandonato dagli adulti?
Viaggio in paradiso, diretto da Adrian Grunberg, è un pretesto per far tornare in scena Mel Gibson. Rugoso, manesco, incattivito. A Pueblito, baraccopoli di detenzione messicana, tutto è corrotto. Polizia, medici, carcerati, ognuno cerca di fare il proprio interesse. Ovviamente, c’è una mafia interna. Il povero Gibson, ladro di banche, ci finisce dentro e risolve le cose a modo suo. Si fa aiutare da un furbo ragazzino e sistema tutto. Non prima di aver messo mano a sparatorie, inseguimenti, sangue in un film che oscilla tra indagine sociale, emergenza educativa – la madre del piccolo e Gibson quasi papà – e amore per azioni selvagge, dirompenti. Per chi ama il Gibson di Arma letale, invecchiato ma sempre sugoso, in una storia dove si respira poco, perché si corre di continuo.
Killer Elite, di Gary McKendry. Che ci fanno Robert De Niro, killer di lungo corso in prigione e il suo allievo-figlio d’arte Jason Stathan, che lo deve liberare dallo sceicco di Oman, incavolato perché il vecchio l’ha imbrogliato? Si divertono, ecco la risposta. Mezzo spy-story, trhiller politico, prodotto globalizzato, il film corre per due ore a perdifiato, senza perdere la rincorsa un attimo. Segno di una sceneggiatura ferrea, come sanno fare gli americani, innegabile. Anche se l’esito è confusionario, perché tra sceicchi, Cia, servizi segreti, politici e banchieri amorali, segreti impenetrabili ci sono tutti i cliché del film d’azione, già arcinoti. Ma il film ha ritmo, fin troppo, e piace a chi vuol vedere gente come De Niro e Clive Owen – sì, c’è anche lui – in ruoli divertenti (per loro) e alla fin dei conti, forse anche per noi.