Al campo profughi di Beit Jibren
La piaga dei profughi palestinesi, iniziata nel 1948 con la costituzione dello Stato d’Israele e la successiva distruzione di centinaia di villaggi palestinesi, continua a lasciare la sua lunga scia di morte e di paura. Betlemme, ad esempio, conta tre campi profughi: il più grande è quello di Dheisheh, a sud della città, dove in pochi ettari di terra vivono 13 mila persone. Il secondo è il campo di Aida, 4.500 persone provenienti da 38 villaggi distrutti nel 1948. Il più piccolo è il campo di Azzeh, o Beit Jibren, dove vivono circa 1500 persone, in due ettari di terreno scarsi. Jibren era il villaggio del sud della Palestina, a 27 chilometri da Hebron, dove avevano vissuto gran parte dei suoi ospiti fino al 27 dicembre 1948, giorno della distruzione del villaggio, e Azzeh è il nome della famiglia più numerosa che vi si è trasferita. 2480 erano gli abitanti di Jibren.
Ma vengono anche da altri villaggi, gli abitanti di Jibren, come indica un indicativo stradale dove sono indicati otto diversi villaggi, «a memoria della storia della nostra deportazione», mi dice il gestore del bar dirimpetto, Ahmed. Tutto il campo è pavesato di murales, gran parte dei quali opera di un noto vignettista palestinese, nato proprio a Jibren. All’ingresso del villaggio, chiamiamolo così, c’è una scuola materna costruita grazie ad una fondazione belga. Un murales rappresenta una grande chiave, contraddistinta dal numero 1948, e una bella casa, la “casa del ritorno”. C’è pure un bell’orto, nell’affresco, a rappresentare che quasi tutti gli abitanti di Jibren erano contadini. Trapiantati a forza nel campo.
«Solo da dieci anni abbiamo qualche infrastruttura precaria: acqua, elettricità, fogne, gas, ma è raro il giorno in cui tutto funziona – mi dice Azzeh, un insegnante alla scuola della Custodia –. Qui dal 1948 fino al 1960 c’erano solo tende. Poi, poco alla volta, stanza dopo stanza, piano dopo piano, abbiamo costruito le nostre case, che si affacciano su strade strettissime, perché non c’è spazio alcuno per costruire case decenti».
Fatima, invece, ha la cinquantina dolorosamente portata. Gestisce un piccolo negozietto di frutta e verdura: «Ho tre figli – mi spiega –. Uno è emigrato negli Stati Uniti, non ce la faceva più a vivere qui. Un secondo è disoccupato e vive ancora con me. Il terzo è in prigione, non ho mai saputo perché. È in un carcere del deserto del Negev». Guarda la strada vuota, poi riprende: «Sono 10 mila i giovani palestinesi nelle prigioni israeliane. Mai alcun popolo ha avuto tanti suoi figli in prigione per così lungo tempo». Speranza finita? Fatima mi guarda, sorride sotto il suo foulard color del legno: «Sia cosa dice un proverbio palestinese? Finché una donna è incinta la speranza non è morta».
Mi conducono su per una scala inerpicata e traballante, fino ad un quarto piano sospeso non so come, e non so con che sicurezza statica. Dentro la stanza assai spoglia ci sono due grandi mobili scuri a vetrina, che contengono alcuni oggetti di artigianato, degli oggetti ricamati e colorati su tessuto nero. Un tavolo di legno scrostato e una decina di sedie di plastica bianca completano il mobilio. Qui una associazione si occupa delle donne del campo profughi, della loro salute, delle loro finanze. Si chiama Centro di Handala e dà lavoro a 25 donne. Poco alla volta cinque di esse salgono le scale e ci raggiungono.
Tra loro una giovane donna dal bel nome di Manar. Nel suo muoversi e nel suo parlare c’è la forza del dolore e del coraggio. È una militante di sensibilità progressista, ha il capo scoperto, non sembra certo un’islamista pur essendo musulmana. «Abbiamo creato questo centro grazie ad una Ong del Giappone, ma anche degli italiani ci aiutano. È poco quel che riusciamo a fare, ma non molliamo, e quel qualcosa che riusciamo a vendere ci aiuta non poco. Più della metà delle donne che lavorano qui hanno dei figli in prigione, e tanti problemi familiari. Almeno qui si occupano, trovano un po’ di serenità. Purtroppo ci sono diversi progetti di lavoro artigianale nel ricamo in Palestina, e così ci facciamo la concorrenza tra poveri». Poi mi racconta del 2002: «Durante l’assedio della natività hanno isolato la nostra piccola isola urbana. Per dieci giorni siamo stati anche noi assediati. Tre sono stati i morti tra gli abitanti, una ventina i feriti e 36 gli arrestati». Le chiedo: «Perché fai tutto ciò?». Mi risponde aprendosi in un sorriso dolce e forte: «Sono insegnante, ma ho lasciato la scuola perché volevo fare qualcosa di bello e di importante per le donne del mio campo. Non so se sono riuscita, ma qualcosa ho fatto». E aggiunge: «Noi rimaniamo qui solidi come gli alberi di ulivo».