Al Campo di Mae La
Dopo ogni inchiesta, un lavoro da fare per noi reporter è quello di mettere in ordine foto, idee e quanto si è scoperto dopo l’ennesima fatica. La regola sarebbe di restare distaccati da tutto quanto visto, e questo vale per tutti. Anche per me. In realtà mi è impossiible. Due giorni sulle montagne tra la Thailandia e il Myanmar, dove ho potuto visitare anche il famoso campo di Mae La dopo qualche anno che vi mancavo, è un’esperienza forte che non lascia indifferenti.
Mae La è uno degli 8 campi ancora attivi, tra i più grandi, nel Nord del Paese: ancora oggi vi sono circa 45 mila persone “rinchiuse”. Negli ultimi 10 anni il mio personale impegno per profughi e migranti è stato intenso, ma non riesco ad abituarmi al dolore, soprattutto quello dei bambini, che non riescono più a sorridere. La malattia più frequente nei campi è in effetti la depressione, che colpisce tutti, grandi e piccoli. Dopo la fuga dal Myanmar, dopo la fame sofferta nella foresta, spesso con la febbre dengue e la malaria, questi bimbi difficilmente sorridono, anche se ora sono al sicuro. La vita nel campo è dura. E non mi abituo a quello sguardo che m’interroga, ogni volta, come un ‘’perché’’ infinito. Ogni volta che pesto quelle strade polverose che accolgono i profughi, che guardo quelle capanne, l’unica cosa che riesco a fare è stare in silenzio, direi in raccogliemento. Dentro vi vivono persone, non cose: esseri umani, le cui condizioni di vita, di conforto sono di uno standard a noi incomprensibile e inaccettabile.
Allora conviene tacere, camminare e ingoiare la polvere e qualche lacrima, in senso letterale. Qualche collina tappezzata di capanne, dove alcuni “ospiti” si trovano da decenni, praticamente impossibilitati ad andare altrove, se non ritornare in Myanmar. Un pezzo di terra, Mae La, donata dal precedente re, Rama IX, Bhumibol Adulyadej, che per 70 anni ha regnato in Thailandia comunemente chiamata anche “la terra degli uomini liberi”. Da sempre la Thailandia ha affrontato il problema riguardante cittadini provenienti dai Paesi limitrofi che entravano in modo illegale, semplicemente perché impossibilitati ad utilizzare un altro metodo, nel territorio del Regno della Thailandia.
Dal 1988, dal giorno della famosa rivoluzione soprannominata “88”, dove Aung San Suu Kyi si è trovata a essere a capo della rivolta studentesca, il paradigma è completamente cambiato. È come se i confini, a un certo punto della storia della regione, fossere letteralmente saltati, e migliaia di persone abbiano passato la frontiera che separava il Myanmar dalla Thailandia per trovare scampo: in ricerca di una possibilità di vita, per non venire trucidati dall’esercito del Myanmar. Dal 1988 ad oggi, i campi profughi al confine tra i due Paesi rappresentano un esempio di accoglienza e di possibilità data a queste persone di poter continuare una vita, di sperare in un futuro migliore. La Thailandia ora accoglie immigrati principalmente dl Myanmar, Cambogia, Laos, Vietnam e, ultimo fenomeno, da Pakistan, India e Nepal, tutti in cerca di lavoro, di un nuovo Eldorado per ricominciare una vita, per un futuro migliore.
La Thailandia, in questi ultimi 10 anni, ha sperimentato un calo demografico significativo e una carenza di mano d’opera allarmante, costringendo i diversi governi a nuove strategie per accogliere e regolare i flussi migratori e poterli utilizzare per i servizi e le industrie, a cui i cittadini thailandesi, non vogliono più lavorare. A contatto con i migranti si coglie la fragilità della loro situazione legale e umana: una fragilità che colpisce, tanto più quando siamo di fronte a bambini, giovani. Mi diceva un’operatrice sanitaria a Mae La che ogni giorno nasce almeno un bambino nella piccola clinica (una delle tante) del campo dove lei lavora. Perché ancora oggi molti giovani preferiscono lasciare il Myanmar ed entrare nel campo di Mae La? Perché l’istruzione a Mae La è indubbiamente migliore di quella in Myanmar: il che, potremmo dire, spiega tanto, spiega le condizioni di oggi in Myanmar.
Con un permesso speciale valido poche ore, ho potuto visitare i miei giovani amici e amiche e raccogliere alcuni dei loro sogni, come poter imparare la lingua inglese, avere un diploma ottenuto da una delle scuole del campo, sognare una remota possibilità di lavorare in Thailandia, in una delle tante fabbriche che stanno aprendo nella zona economica a statuto speciale, proprio a Mae Sot: un’astuta mossa politoco-economica per attrarre tanti impianti produttivi stranieri e locali in una zona montagnosa, lontano dai controlli sull’inquinamento e sulle norme di sicurezza internazionali, ormai in vigore nel resto del Paese, e soprattutto con abbondanza di mano d’opera a metà prezzo rispetto ad altre regioni e zone produttive nel Paese. Dei 58 milioni di profughi al mondo, quelli presenti in Thailandia, sono una piccola parte ma, a mio avviso, molto redditizia per chi comanda. Non dobbiamo dimenticare che mentre scorre quest’articolo, un altro numero di profughi o migranti si sono aggiunti alla lista di pochi minuti fa: uno ogni due secondi.
Scendendo le montagne da Mae La, commentavamo con un amico, anche lui reporter, quanto sia importante non dimenticare questa gente, ma parlare al mondo di loro. Perché la loro vita non vale di meno della mia, della nostra, di tutti noi.