Ahyodhya, 14 anni dopo
Ne ho sentito parlare molto, soprattutto dai miei genitori. Personalmente non saprei che dire. Ero troppo piccolo nel 1992 e il problema sinceramente non mi interessa. Penso sia una perdita di tempo correre dietro a quattro ruderi. Chi parla è Sanjiv, un teen-ager di Mumbai recentemente intervistato da un noto quotidiano a tiratura nazionale sul tentativo di alcuni terroristi di entrare nella zona di Ayodhya controllata dall’esercito. Ma dov’è Ayodhya? È una piccola cittadina della pianura dello stato dell’Uttar Pradesh, che agli inizi degli anni Novanta aveva avuto grande notorietà non tanto per turismo o affari, ma per quegli scontri religiosi che culminarono nel dicembre 1991 con la distruzione di una moschea mussulmana che gli indù sostenevano essere stata costruita sulle rovine di un tempio dedicato a Rama, per loro una delle incarnazioni di Dio. Nei mesi scorsi, qualcuno ha cercato di rinfocolare la strategia della tensione di quegli anni. Alcuni uomini armati hanno cercato di assalire la zona chiusa per decisione della Corte suprema dell’India. Fatto casuale o ripresa di una tensione pericolosa? Alcuni politici hanno cercato di sfruttare l’accaduto per risollevare la questione e riportarla in ballo sulla scena nazionale. La reazione dell’opinione pubblica è stata sorprendente: un disinteresse quasi totale. Le parole del giovane di Mumbai sono sintomatiche di quanto la gente pensa oggi, e non solo fra i giovani. Anche la classe media indù, che aveva avuto un ruolo fondamentale nella questione di Ayodhya, ha ormai accantonato il problema. L’India è, con la Cina, la potenza emergente: la classe media è in crescita quasi esponenziale e la ricchezza e il consumismo ormai bussano alla porta di molti. Coloro che sono meno fortunati – e sono ancora la stragrande maggioranza di questo immenso paese -, hanno altro cui pensare: la lotta per la sopravvivenza. Il Bharatya Janata Party che, ispirato dalla grande famiglia indù fondamentalista del Rss, Sangh Pariwar and Bajarang Dal, aveva lanciato l’operazione Ayodhya negli anni Ottanta per coagulare voti dell’elettorato indù e l’aveva poi completata con la distruzione della moschea, è ormai a corto di argomenti. Lo scorso anno ha perso le elezioni. E, se la cosa al momento era sembrata una sorpresa, gli ultimi 15 mesi hanno visto un partito, che pareva in ascesa irresistibile, progressivamente ingolfato da diatribe interne, scandali politici, incapacità di rinnovamento ideologico e di ricambio generazionale. Molti degli indù che avevano posto fiducia in questo partito se ne sono progressivamente staccati, delusi dai risultati scoraggianti. L’hindutva, l’ideologia che guida questa fascia politica, mirava ad assicurare un paese agli indù: Ayodhya era parte di questa linea politica. Oggi, dopo 15 anni i risultati sono sorprendenti; basti pensare che l’India ha ora un presidente della Repubblica musulmano e un primo ministro sikh. Entrambi sono amati e stimati da tutti e nessuno ha mai pensato di criticarli o di chiederne le dimissioni perché appartenenti ad altre religioni. Ayodhya è quindi messa da parte, ma di tanto in tanto la problematica riemerge per mostrare, alla fine, quanto sia diventata ormai marginale. Il fenomeno è interessante ed è per questo che abbiamo avuto la possibilità di intervistare due personaggi autorevoli: uno indù gandhiano e l’altro musulmano per avere un punto di vista incrociato sul problema Ayodhya. L’indù L’avv. Mariappan è una figura ben nota a Madurai, capitale culturale e religiosa del Tamil Nadu. Il suo incedere solenne e quel suo volto sereno coniugati all’immancabile camicia e lnghi bianchi di fattura khadi (cotone filato all’arcolaio) lo rendono un simbolo gandhiano indiscusso nella zona del Sud dove l’induismo è cresciuto attorno al grande tempio di Meenakshi, una delle meraviglie dell’India. Attualmente dirige la rivista Sarvodaya, sia in inglese che in lingua locale tamil. Mariappan è anche un avvocato di gran nome soprattutto per aver sempre difeso casi di gente che non poteva permettersi parcelle esose. Negli ultimi anni è stato spesso sui titoli dei giornali per aver combattuto e vinto una lunga battaglia a favore dei pescatori e degli agricoltori della costa sud del Tamil Nadu, che da anni erano minacciati dalla cultura indiscriminata di frutti di mare che rischiava di alterare l’equilibrio ambientale. Come inquadrare il problema Ayodhya dal punto di vista storico? Il punto di partenza è il Ramayana, un poema epico classico dell’induismo il cui protagonista, Rama, descritto come una delle tante incarnazioni di Dio, nasce proprio ad Ayodhya. Come tutte le opere epiche, anche il Ramayana non ha veridicità storica. La questione di Ayodhya è quindi una montatura? In un certo senso sì; ma la cosa non è così semplice. Il Ramayana, composto in sanscrito dal saggio Valmiki, ha come tema centrale la lotta fra il bene ed il male ed il trionfo del primo sul secondo. Questo contenuto, lungo i secoli, ha esercitato una grande influenza su generazioni e generazioni di indù. Ciò ha contribuito a creare un processo di trasmissione orale e di tradizione per cui la gente ha finito per credere che Rama ed altri personaggi del poema fossero veramente esistiti. Tutto questo è pura credenza. Ma la gente alla fine pensa quello che vuole. Come leggere allora il problema? Personalmente sono convinto che Gandhi è l’unico ad aver dato un’interpretazione esatta del poema, non accettando mai il Ramayana come un documento storico, ma accettandone il messaggio: il bene finisce sempre per prevalere sul male. Il Mahatma, nella sua prospettiva religiosa, non ha mai permesso che il fervore ed il sentimentalismo religioso prevalessero sui valori morali. Dove hanno origine tali valori? Fu solo dopo l’invasione moghul che la gente cominciò ad attribuire un valore religioso all’opera come reazione alla violenza religiosa e culturale provocata dall’invasione musulmana dell’India. Questo vale anche per il periodo coloniale inglese. Queste situazioni storiche hanno finito per accentuare i toni del Ramayana attribuendo un valore storico, non solo all’opera, ma anche ai personaggi ed ai luoghi descritti. Quale soluzione proporre? Gandhi ha coltivato a fondo i valori del Ramayana e ne ha anche fatto uso presentando la possibilità di un Rama Raj, un cosiddetto regno di Dio, da realizzarsi nella società. Tuttavia si è sempre premurato di assicurare che il processo per dargli vita non desse adito a sentimenti ed atteggiamenti di fondamentalismo. Se ci si pone quindi in questa prospettiva gandhiana, si comprende come il problema di Ayodhya sia stato creato dal fondamentalismo indù per interessi politici. Quali le conseguenze? Si potrebbe pensare ad un’onda lunga ? Sono convinto che il fenomeno sia un problema passeggero se veramente si riuscirà a trovare una soluzione valida e duratura ai problemi reali, socio-politici, della gente. È bene notare, inoltre, che la problematica è limitata, in massima parte, al nord dell’India, perché le popolazioni della pianura gangetica hanno sofferto per il rapporto con l’Islam. Nel sud il problema non è assolutamente percepito nello stesso modo. Ciò che mi pare evidente è che il clima assurdo, creatosi dopo la distruzione della moschea agli inizi degli anni Novanta, si sta ormai dissolvendo e non penso che possa essere ricreato in futuro. I fondamentalisti indù possono mantenere vivo un clima di tensione solo nel nord, dove la maggioranza della popolazione è ancora analfabeta o con un grado di scolarità assai basso. Il musulmano Il prof. Asgarah Ali Engineer è una delle voci più ascoltate in India in fatto di problematiche sociali e religiose. Mussulmano Bohri (una piccola ma potente comunità che controlla gran parte del mercato dei preziosi in India e, soprattutto, a Mumbai), non ha mai cessato di lottare contro le ingiustizie perpetrate in nome della religione, prendendo posizioni nette e spesso controverse anche nei confronti della propria comunità. Profondo conoscitore dell’Islam dal punto di vista dei testi, ma anche della giurisprudenza coranica, è attento analista delle problematiche sociali e religiose. Dottor Engineer, come vede tutta la questione di Ayodhya? Non è mai stato provato in alcun modo che esistesse un tempio indù dedicato a Rama in quel luogo. È stata solo la propaganda di un partito politico, i cui leader volevano ottenere voti. La questione non ha nulla a che fare, quindi, con elementi religiosi. È limitata alla politica: la possibilità di assicurarsi i voti degli indù. Questo partito c’è riuscito, almeno per alcuni anni. Sono arrivati al potere per un’intera legislatura. Poi, quando la gente si è resa conto di cosa stava realmente accadendo, nelle elezioni del 2004 il Bharatya Janata Party è stato sconfitto. L’India è una grande nazione, multireligiosa da secoli, ed ha una storia che insegna al mondo che cosa significhi una società multireligiosa e multiculturale. Eppure, nella storia indiana, questa vicenda della moschea è stata un’aberrazione. È una vergogna che un partito politico usi tale situazione per arrivare al potere. Riguardo la storicità della moschea, che pensare? Personalmente non penso che la Babri Masjid fosse stata costruita su un tempio e nemmeno che un tempio fosse mai esistito. I buddhisti, per esempio, affermano che la moschea era stata costruita vicino ad un luogo sacro al buddismo. Bisogna anche tener conto che nei secoli passati, molti costruttori di moschee usavano materiali disponibili sul luogo, e quindi una moschea avrebbe potuto benissimo essere costruita vicino ad un tempio o dove c’era stato un tempio. Comunque, se anche fosse stata costruita non si può accusare l’Islam in generale di una tale azione. Il Corano invita chiaramente a rispettare tutti i luoghi sacri, un tempio o una sinagoga o una moschea, perchè – nelle parole del Corano – Dio ha la sua dimora fra quelle mura. Quindi l’Islam non può essere favorevole alla distruzione di luoghi di culto. La gente in India come ha percepito il problema di Ayodhya? Parlo della mia comunità mussulmana. I mussulmani, in generale, in India hanno vissuto questa esperienza come diretta contro l’Islam. La demolizione della moschea è stata poi seguita da molti scontri con migliaia di morti e grandi distruzioni di proprietà e di abitazioni. Tutto questo ha prodotto un senso di grande insicurezza e di paura. E oggi? I musulmani sono convinti che i loro leader non avrebbero dovuto procedere al confronto diretto e, in definitiva, a uno scontro frontale. Io stesso avevo consigliato le autorità religiose della nostra comunità in India di lasciar perdere la questione di Babri Masjid. Le vite umane sono più importanti di qualsiasi moschea. Il Profeta, guardando la khaba, il luogo più sacro nell’Islam, esclamò: Tu mi sei molto cara, ma una vita umana lo è ancora di più. Ma dobbiamo essere sinceri: anche i leader musulmani erano dei politici ed avevano interessi non esattamente di tipo religioso. Oggi sono tutti convinti che i leader hanno sbagliato, non scegliendo la strada dei negoziati. Mi permetta però di dire che gli indù fondamentalisti non avrebbero mai accettato il dialogo. Sentivano che l’opinione pubblica indù rispondeva secondo le loro previsioni e che la questione del Babri Masjid era una carta vincente per arrivare al potere. Se però i leader musulmani fossero passati per la strada del dialogo avrebbero senza dubbio influenzato positivamente le masse degli indù.