Agorà
Il regista Alejandro Amenàbar porta sul grande schermo la storia della filosofa Ipazia. Pur nella perfetta ricostruzione scenografica, il film sconta una presa di posizione idelogica evidente.
Raccontare la storia della filosofa Ipazia, vissuta ad Alessandria d’Egitto e uccisa da una setta cristiana, non è impresa agevole. Il film di Alejandro Amenàbar rivisita la vicenda con gli occhi dell’oggi, il che non è un buon segnale di partenza per chi voglia parlare di storia. Contestata a Cannes nel 2009, l’opera, arrivata in Italia non senza polemiche, sconta – a dire il vero – una presa di posizione ideologica evidente fin dalle prime battute. Se è vero che episodi di intolleranza e fanatismo non sono mancati nel cristianesimo né in altre forme religiose, resta il fatto che il messaggio del film rimane questo: la religione è per sua natura intollerante, ostile alla ragione e alla scienza. Il cristianesimo più di tutte. Così Ipazia, interpretata molto bene da Rachel Weisz, in una ricostruzione scenografica e costumistica pressoché perfetta, diventa il simbolo della ricerca pura, della superiorità della ragione sulla fede, che è quanto il neoilluminismo attuale vagheggia e diffonde, presentando chi ha fede come un superstizioso o un fanatico.
Peccato, il film è una occasione mancata, troppo ambizioso e aprioristico per una visione serena del bene come del male nella storia e, onestamente, troppo corrivo alla moda mediatica attuale, questa sì intollerante verso chi non si allinea alle proprie posizioni.