Agli Oscar trionfano i nomadi di “Nomadland”

Alla 93esima edizione la vittoria, come dai pronostici, è andata a  Nomadland di Chloè Zaho. Oscar ad Anthony Hopkins, 83 anni. Italia a bocca asciutta.
la regista Chloe Zhao (AP Photo/Chris Pizzello, Pool)

Tripletta per la regista cino-americana, Chloè Zaho, 38 anni. Venezia, dove ha ricevuto il Leone d’oro 2020, ancora una volta è servita da rampa di lancio per gli Oscar. Premio per la miglior regia, il miglior film e la miglior attrice protagonista alla carismatica, antidiva, con la sua faccia sbilenca e gli occhi aguzzi, Frances McDormand in un lavoro cucito addosso proprio per lei. Il film è una storia che dimostra l’interesse del cinema per un tema oggi molto sentito, cioè gli emarginati.  Fern, dopo un crollo economico, lascia casa e fattoria, partendo per un viaggio in furgone. Incontrerà i nomadi – etnia sempre malvista -, ma da loro apprenderà molto sulla vita, sull’umiltà negli sterminati paesaggi dell’Ovest americano. Film forte, forse non un capolavoro, ma coraggioso e pieno di dignità. La McDormand poi, con la grinta che la contraddistingue, offre un ritratto di rara umanità.

In una Notte delle stelle dove le donne hanno avuto la parte del leone – Yuh-Jung Youn premiata attrice non protagonista per Minari – gli uomini non si sono tirati indietro.  Anthony Hopkins, 83 anni, è rimasto in Inghilterra e non è andato a ricevere la mitica statuetta come miglior attore protagonista di The Father – Nulla è come sembra di Florian Zeller. Storia drammatica dove Hopkins interpreta un anziano afflitto da demenza senile e il suo rapporto con la figlia Anne. Si tratta di un racconto commovente sulla solitudine e di fatto l’inconsolabilità dei vecchi quando si accorgono di non essere più padroni di loro stessi con la memoria che vaga confusamente come foglie al vento. Non per nulla il film finisce con una inquadratura di foglie volteggianti.

Minari, scritto  e diretto da Lee Isaac Chung, già vincitore come miglior film straniero al Golden Globe, è un’altra storia familiare.  Il piccolo  coreano-americano David deve trasferirsi con la  famiglia dalla costa occidentale all’Arkansas rurale. La vita gli si cambia: il padre si occupa di crescere economicamente, in casa la vecchia nonna coreana mette in subbuglio la famiglia con le sue tradizioni. È un racconto drammatico certo, che affonda l’indagine sulla vita familiare e assume per questo motivo una dimensione universale.

Daniel Kaluuya è stato premiato come miglior attore non protagonista del film Judas and the Black Messiah di Shaka King. Uno sguardo sulla profonda e  irrisolta storia  americana,  questa volta a Chicago nel 1967 dove il leader di colore Fred Hampton viene ucciso dalla Cia  per il suo tentativo di cambiare la società. Questione ancora oggi scottante e non risolta, ma che dimostra come  gli Usa non dimentichino la loro storia, di rivederla con occhio critico, a differenza di noi italiani .

Miglior film  internazionale il danese Un altro giro di Thomas Vinterberg, storia curiosa  di quattro professori convinti che vivere in uno stato di costante ebbrezza migliori la vita. E l’Italia? Nulla, purtroppo. Nessun premio a Laura Pausini e a Pinocchio di Matteo Garrone, che forse qualcosa meritava. Tuttavia, onestamente dobbiamo forse dire che il nostro cinema è davvero piccolo se confrontato ai temi dei film premiati, indagini senza sconti su un mondo di dolore,  di fatica, di emarginazione sociale e familiare. Soggetti scottanti, attuali di una umanità in sofferenza trattati con un respiro grande. Quello che  noi avevamo e che ora, purtroppo, ci manca.

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