Aggiungi un posto a tavola (per l’angelo)

Una puntata sul colle romano del Celio cercando le memorie di san Gregorio Magno, il papa che serviva i poveri
Foto Fabrizio Corradetti/LaPresse 16 settembre 2018 Roma , Italia Cronaca Palazzi storici al Celio Nella foto: Antiquarium comunale tra Viale di Parco del Celio e Via di San Gregorio

Tra i sette colli di Roma il Celio rimane tra i miei preferiti, col suo complesso di basiliche paleocristiane, vestigia archeologiche e spazi verdi di bellezza: quasi un’isola tranquilla tra il Colosseo e San Giovanni in Laterano, appena sfiorata dal flusso dei turisti.

In origine ricoperto da boschi di querce, il Celio prende nome dal condottiero etrusco Celio Vibenna, che all’epoca dei primi re di Roma ne prese possesso. Ultimo dei sette colli ad essere inserito nella cerchia di mura repubblicane, era ricco anche di acque (come la celebre fonte delle Camene citata da Giovenale) e attraversato da acquedotti: nel 312 a. C. da quello dell’Acqua Appia e un secolo dopo dal condotto sotterraneo dell’Acqua Marcia. Le superstiti arcate che si notano nella zona appartengono invece all’acquedotto di Nerone.

Il famoso incendio avvenuto sotto questo imperatore non risparmiò il Celio. Nella rinascita successiva, il colle si ricoprì di ricche dimore signorili, di caserme e strutture di servizio per gli spettacoli nel vicino Anfiteatro Flavio. Nuovi immensi danni apportò, nell’agosto del 410, il saccheggio dei goti di Alarico. Le proprietà devastate furono in seguito acquistate dalla Chiesa per edificare templi, conventi ed ospizi su ciò che restava degli edifici pagani.

Nel 1084 le scorrerie e gli incendi ad opera dei normanni di Roberto il Guiscardo ridussero il Celio e adiacenze a un luogo deserto e desolato. Solo a partire dal XVI secolo esso conobbe una ripresa edilizia fatta di ville nobiliari e proprietà terriere, come quella della famiglia Mattei, oggi Villa Celimontana. La costruzione nel 1886 dell’Ospedale militare inaugurò l’epoca moderna con le sue sistemazioni urbanistiche e il restauro di importanti complessi paleocristiani.

Non sarebbero sufficienti dieci itinerari per descrivere i tesori storici, artistici e naturalistici di questo colle. Per non dire dei santi che qui hanno o ebbero sepoltura: san Cirillo, fratello di Metodio; i santi ufficiali martiri Giovanni e Paolo; il fondatore dei Passionisti san Paolo della Croce e quello dei Trinitari san Giovanni de Matha. Mi limito stavolta al versante che guarda il Palatino e il Circo Massimo, dove in una zona quasi agreste, dall’alto di una gradinata, s’affaccia il bianco prospetto in travertino di San Gregorio al Celio.

Questa chiesa, la cui costruzione originaria risale al VI secolo, insiste sul luogo dove un tempo sorgeva la casa paterna del papa Gregorio I Magno, appartenente all’antica famiglia senatoriale degli Anicii. Quando Gregorio scelse di dedicarsi alla vita religiosa – con la rinuncia all’altissima carica che ricopriva come prefetto della città –, trasformò questa dimora in un monastero affiancato da una chiesa dedicata a sant’Andrea, assumendo come regola quella benedettina. Da qui nel 597, vescovo di Roma e papa suo malgrado, inviò il futuro sant’Agostino di Canterbury ad evangelizzare l’Inghilterra.

Alla fine del Cinquecento il monastero venne affidato ai camaldolesi che, dopo gli interventi realizzati all’inizio del Seicento, tra il 1725 e il 1734 ricostruirono la chiesa, facendola precedere da un atrio porticato. L’interno a tre navate con colonne appartenute all’edificio medievale ha una veste barocca ed è ricco di opere d’arte. Vi si conservano la cella di Gregorio con la pietra che avrebbe utilizzato come giaciglio e la sua cattedra episcopale in pietra, un pastorale e alcune reliquie.

Ma è accanto alla chiesa che si trovano le memorie più toccanti di questo grande pontefice, e precisamente nei tre oratori ai quali si accede da un cancello a sinistra della scalinata. Quello centrale, risalente al tempo di Gregorio e poi rifatto nel XII secolo, è dedicato a sant’Andrea. Preceduto da un portichetto con quattro colonne antiche di marmo cipollino, ha all’interno soffitto di legno, altari e dipinti di Guido Reni, del Domenichino, del Pomarancio e di Giovanni Lanfranco, appartenenti al restauro iniziato nel 1602 dal cardinale Cesare Baronio e completato nel 1608 da Scipione Borghese. L’oratorio di destra, dedicato a santa Silvia, madre di Gregorio, venne eretto invece tra il 1602 e il 1606 dal Baronio: qui affreschi di Guido Reni e Sisto Badalocchio. L’oratorio di sinistra, detto di S. Barbara o del Triclinio, rifatto anch’esso nel XII secolo, poggia sui resti di un’insula romana con botteghe e presenta nella nicchia di fondo una statua di san Gregorio Magno benedicente realizzata da un blocco di marmo sul quale Michelangelo aveva abbozzato un lavoro mai portato a termine

Secondo un’antica tradizione qui era situato il triclinium pauperum, ovvero la mensa dei poveri. E la massiccia tavola marmorea del III secolo posta al centro dell’ambiente sarebbe appunto quella sulla quale ogni giorno santa Silvia e il figlio papa Gregorio I distribuivano cibo a dodici poveri. Si narra che un giorno ai dodici si aggiunse un tredicesimo commensale, rivelatosi poi un angelo, quale segno di benevolenza celeste: episodio descritto in uno degli undici affreschi seicenteschi, opera di Antonio Viviani, che decorano l’oratorio.

Ricorda questo fatto miracoloso la frase in latino incisa sulla porta d’ingresso: «Qui san Gregorio nutriva i poveri e un angelo sedette come tredicesimo». Di qui la consuetudine, mantenuta fino al 1870, che il giovedì santo il papa servisse da mangiare a 13 poveri in questo oratorio.

Continuano oggi, in altro modo, l’assistenza ai disagiati le Suore Missionarie della Carità, che proprio accanto ai tre oratori hanno la loro sede generalizia ricavata nell’ex pollaio dei monaci camaldolesi e dove è possibile visitare la stanzetta che ospitava Madre Teresa di Calcutta nelle sue trasferte a Roma. Le suore in sari bianco dal bordo blu gestiscono infatti, in una parte dell’antico convento annesso alla chiesa di San Gregorio, un centro d’accoglienza che offre cure e ristoro attraverso una mensa a varie decine di anziani indigenti. Sono loro ora gli angeli al servizio degli ultimi in questa propaggine del colle.

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