Afriche senza pace
Si dovrebbe sempre parlare di Afriche al plurale, non usando il singolare che per fenomeni realmente continentali, mai usando espressioni generiche come “migranti provenienti dall’Africa”, “risorse del sottosuolo dell’Africa” o “guerre scoppiate in Africa”. In particolare per i conflitti, che imperversano in varie parti del continente, ognuno con una sua specificità non riconducibile alle altre guerre. Difficile perciò cercare uno o più punti di unificazione tra le diverse esplosioni di violenza: cosa lega la lotta del popolo saharawi con la conflittualità a sfondo tribale e finalizzato alla conquista di risorse nel Nord Kivu? Poco o nulla.
Eppure tre appaiono gli elementi che contraddistinguono le diverse guerre africane: l’onda lunga del colonialismo, il controllo delle risorse naturali e le diatribe etniche o comunque tra diverse classi sociali. Si possono certo unificare le decine di conflitti armati che si volgono nel continente come guerre “di potere e di denaro”, è ovvio, as usual, rien de nouveau: inglese e francese sono in questo caso d’uopo, perché non si riesce ancora a ragionare nelle Afriche senza tener conto delle dominazioni di Parigi e Londra su gran parte dell’Africa, che hanno caratterizzato tutto il XX secolo, e che entrano definitivamente in crisi solo nel nostro XXI secolo.
Parliamo, ovviamente dei conflitti attualmente aperti, quelli in cui entrano in gioco gli eserciti e che contano morti e feriti nei campi di battaglia e profughi nei loro dintorni. Oltre al già citato problema del Sahara meridionale, che non è mai realmente terminato dopo essere cominciato nel 1975 per il controllo di un territorio desertico conteso tra Fronte Polisario e Marocco, non si può evitare di raccontare quel che succede nel Corno d’Africa: in Somalia c’è una guerra civile che dura dal 1986, con forti presenze jihadiste e motivazioni tribali – una parte del Paese si è dichiarata indipendente fondando il Somaliland, che mantiene un precario suo equilibrio –, mentre è ora attivo un sanguinoso conflitto civile in Etiopia, sotto la presidenza, paradossalmente, di un ex Premio Nobel per la pace, Abiy Ahmed Ali, e che tocca ora la regione dell’Amhara, dopo aver messo a ferro e fuoco il Tigray. Infine, l’Eritrea continua a essere sottoposta a un regime dittatoriale guidato da Isaias Afewerki, dal 1993 al potere, senza essere riuscito a debellare la fiera resistenza di tanti oppositori. Solo Gibuti, nel Corno d’Africa, non è in guerra, fors’anche perché ospita le basi militari di mezzo mondo.
A contatto con questa regione, Sudan e Sud Sudan conoscono guerre guerreggiate che fanno morti e feriti, ma che soprattutto provocano milioni di profughi, che vivono in campi gestiti dall’Onu con l’Unhcr, se va bene, oppure dall’Unione africana o ancora da signorotti locali. Le ragioni dei conflitti sono lunghe e complesse, certamente con caratteri tribali ma anche per il controllo del potere e di territori che celano ampie riserve minerarie e petrolifere. Poco più a ovest, ecco il Sahel, coi suoi molteplici conflitti, dal Mali, al Burkina Faso e al Niger, mentre solo il Ciad sembra rimanere immune da scoppi di violenza maggiori. Sono guerre poco chiare, con forti elementi islamisti e la presenza sempre più ingombrante di Russia e Cina. Senza dimenticare la Nigeria di Boko Haram.
E qui si aprono le letture “colonialiste” dei conflitti nelle Afriche: nel Sahel, infatti, si assiste alla fine del colonialismo dei francesi, prolungatosi per decenni dopo l’indipendenza dei singoli Paesi raggiunta negli anni ’60 e ’70. Ora, tale presenza, che ha alimentato l’odio di intere popolazioni nei confronti di Parigi (si dovrebbe pure parlare della guerra economica determinata dal franco africani, il CFA), lascia il posto alle presenze, egualmente o forse ancor più colonialiste di Russia e Cina.
La prima con le sue armi e la sua presenza militare, la seconda con il suo commercio e le sue infrastrutture cedute ai singoli governi a interesse zero per una dozzina d’anni, ma pur sempre onerose gravemente nel tempo. Ovviamente la presenza cinese è più massiccia di quella russa praticamente in tutto il continente, ma senza uso di militari, a differenza di Mosca, che invece ha una visione colonialista più militare che commerciale. Da sottolineare pure che l’instabilità post-francese sta colpendo Paesi tradizionalmente più pacifici, come Senegal, Camerun – dove continua il conflitto del presidente immarcescibile Paul Biya contro gli anglofoni –, Gabon, che ha recentemente conosciuto un golpe esplicitamente antifrancese e Repubblica centrafricana.
L’onda lunga colonialista sembra essere la ragione delle tante conflittualità che esistono nella zona dei Grandi Laghi, che interessano Ruanda, Burundi, Uganda e Repubblica Democratica del Congo per il controllo delle enormi risorse, soprattutto di cobalto e litio, oltre che di terre rare come il coltan, che sono minerali necessari per far funzionare le macchine della rivoluzione digitale, computer e telefonini soprattutto. Analoghe questioni sulle risorse colpiscono pure Angola e Mozambico.
Insomma, l’instabilità sembra governare la massima parte dei Paesi di tutte le Afriche, in particolare nella zona subsahariana, forse con l’eccezione di alcuni Paesi come la Namibia, la Tanzania, il Botswana, lo Zambia, il Kenya e il Malawi, che pur non sono privi di ricorrenti tensioni. Discorso a parte meriterebbero l’estremo nord e l’estremo sud del continente, cioè il Maghreb e il Sudafrica, che hanno problemi più complessi, ma che in ogni caso non godono di una grande stabilità.