Afghanistan: nessuno può vincere

Diciotto anni dopo aver invaso il Paese dell’Asia centrale, il Pentagono è obbligato a manipolare i risultati per non ammettere una cocente sconfitta. Ma, in realtà, come in tutte le guerre, i suoi vincitori sono solo apparenti

Non bisogna essere degli esperti in questioni militari per capire che, 18 anni dopo l’invasione dell’Afghanistan, gli Usa e la Nato questa guerra l’hanno persa. Lo dicono le migliaia di morti tra la popolazione civile che porta via ogni anno questo conflitto, insieme a 5-6 mila effettivi dell’esercito, in un Paese mai pacificato e retto da governi evanescenti pure loro avvolti in faide tribali, nelle quali oggi è invischiato anche il Daesh; lo dice il fatto che oltre il 40% del territorio è di nuovo sotto controllo dei talebani, il gruppo jihadista che gli Usa vennero a combattere per aver ospitato al-Qaeda, la rete terroristica che si attribuì gli attentati dell’11 settembre 2001. I talebani sono temibili come e più di prima e, sebbene non governino, è con loro che la Casa Bianca negozia da tempo il futuro del Paese, pur di svincolarsi da questa guerra che ormai nessuno è più capace di giustificare, nemmeno il nebbioso mandato Onu che finì per affidare alla Nato l’intervento.

Semmai ci fosse bisogno di una conferma del male suscitato con la vaga idea di esportare “pace e democrazia” armi in mano, questa viene dalle 2 mila pagine di documenti conosciuti come Afghanistan papers che, dopo tre anni di disputa legale, il Washington Post ha pubblicato rivelando lo stato confusionale nel quale la Casa Bianca si è imbarcata in questa guerra. In un comunicato lo stesso Donald Rumsfeld, allora ministro della Difesa, confessava non vederci chiaro in merito a «chi fossero i cattivi» (sic!), e con lui lo ammettono anche alti ufficiali. In mezzo a questo guazzabuglio, i documenti rivelano che l’amministrazione statunitense da anni “ritocca” l’informazione per render accettabile la sua presenza e non suscitare reazioni per i più di 2.400 effettivi morti ed i più di 20 mila feriti. «Ogni dato è stato alterato per presentare le cose il meglio possibile», indica in una intervista il colonnello Bob Crowley, tra il 2013 ed il 2014 consigliere militare, che aggiunge: «I sondaggi, ad esempio, erano completamente poco affidabili ma puntellavano l’idea che tutto quanto facessimo fosse corretto». Ancora: «Non sapevamo cosa stessimo facendo, non avevamo la più remota nozione di cosa stessimo attaccando», confessava da parte sua nel 2015 il generale con tre stellette Douglas Lute, ai massimi vertici della guerra durante la gestione di George Bush e di Barack Obama.

I conflitti in Afghanistan durano da decenni e sono vari. Il primo è tra la etnia pashtun, la più consistente del Paese, contro le altre etnie. Una seconda lotta avviene all’interno di questo gruppo tra i durrani ed i ghilzai (l’emiro Mohammed Omar era un talebano ghilzai, gli Usa misero alla presidenza un durrani, Hamid Karzai). Con la sconfitta dei sovietici, nel 1989, risultarono perdenti anche le tribù più progressiste nei confronti di quelle alimentate dal jihadismo. Esiste poi un conflitto meno visibile, un prolungamento dello scontro tra Pakistan e India, dato che Karachi cerca in Afghanistan militanti per la causa del Kashmir. E vi è poi la lotta tra talebani pakistani e afgani contro il regime di Karachi. A tali conflitti si aggiunge la strategia delle grandi potenze che hanno usato secondo i loro comodi questo Paese. Nel mezzo una popolazione che non ha praticamente voce in capitolo e che ha patito centinaia di migliaia di morti e milioni di rifugiati.

Oggi gli Usa cercano di indebolire i talebani per far pendere i negoziati a loro favore e, questi ultimi, sanno aspettare per ottenere il potere agognato, forse tollerando alcune loro basi militari, in cambio di continuare a finanziarsi con la produzione di eroina ed oppio (provvedono, secondo alcuni dati, al 92% della domanda globale mondiale), e con le royalties su oleodotti e gasdotti che devono passare dall’Afghanistan. Ma sarà possibile cambiare queste logiche scellerate che usano apertamente la guerra come continuazione della globalizzazione con altri mezzi? Se oggi siamo più coscienti di dover aver cura del pianeta, lo dobbiamo a chi ha incessantemente martellato sul tema: dagli ecologisti di sempre alla tenace Greta Thunberg. I poteri non se sono stati capaci. Allora, anche la pace ha bisogno dell’azione insistente dei suoi difensori.

 

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