Afghanistan nel cuore
Il racconto di Bruno Arpaia, avvocato, ufficiale dell'esercito, dopo sei mesi in missione a Kabul.
Una pattuglia di militari italiani uccide accidentalmente una tredicenne e ferisce altri passeggeri che si trovavano a bordo di una macchina che non si era fermata all’alt. Un tragico incidente, quello successo lo scorso 3 maggio ad Herat, nel nord dell’Afghanistan, che ha rischiato di mandare in frantumi l’ottimo lavoro dei nostri militari di stanza in quella zona e che, si spera, non subisca un contraccolpo per quell’impegno, tipico dei nostri soldati, nel cercare il dialogo con la gente locale a partire dai capi tradizionali.
Se l’attenzione verso queste missioni a volte scorre sotto traccia e a volte riemerge prepotentemente, questa è una di quelle situazioni che attirano d’improvviso l’interesse di tutti.
Così succede per l’Iraq, il Libano, l’Afghanistan… tra i nostri “fronti” aperti in campo internazionale. Missioni a volte controverse, spesso dibattute, sempre a rischio comunque per chi, lontano dalle approvazioni o dai dissensi, si trova ad operare sul campo.
Qualche giorno dopo l’incidente di Herat incontriamo Bruno Arpaia, avvocato, ufficiale dell’Esercito. Per ovvi motivi non possiamo chiedergli di raccontare i particolari riguardanti la vicenda, ma si può intuire il coinvolgimento emotivo, anche dall’Italia, di chi ha vissuto sulla propria pelle certe situazioni. Quella in Afghanistan, infatti, dove è andato in qualità di consulente legale, incarico che riveste quale ufficiale dell’esercito italiano, è la sua esperienza internazionale più recente dopo Albania e Iraq e, seppur conclusa da qualche mese, ancora tanto viva.
«Sì, la porterò dentro per sempre – confida –. Come fare a dimenticare quei volti segnati da un’enorme sofferenza, quella povertà che spesso è miseria, quei giovani che dimostrano il doppio degli anni che hanno? Ormai fanno parte di me».
E allora cerchiamo anche noi di conoscere la situazione attuale di questo Paese di cui ogni tanto i media ci raccontano per lo più sprazzi di guerriglia.
Immaginiamo Kabul coi suoi tre milioni di abitanti, la maggior parte sistemati in case di fango alle pendici delle montagne, senza acqua né elettricità. Le uniche abitazioni, dei prefabbricati in cemento armato, sono infatti quelle costruite durante l’occupazione sovietica.
«L’arrivo della comunità internazionale dopo la fine del regime talebano ha attratto dalle campagne limitrofe molte famiglie in cerca di fortuna, determinando il collasso dell’esigua rete di servizi della città», racconta Arpaia. L’energia elettrica è erogata solo per poche ore al giorno. Diversi i miglioramenti dovuti agli aiuti internazionali come nel campo dell’assistenza sanitaria dove però si registra ancora un alto indice di mortalità femminile al momento del parto. Alcune strade principali sono state asfaltate di recente, mentre quelle in aree rurali rimangono, come da secoli, piste polverose.
«È una realtà in evoluzione che presenta non pochi contrasti quella in cui opera il nostro contingente nel contesto della missione Nato», commenta l’ufficiale Arpaia. Lo sforzo principale è volto a conquistare la fiducia e la collaborazione della popolazione e delle autorità locali puntando ad un dialogo costante con i mullah e le figure influenti all’interno della comunità.
«Per programmare la ricostruzione, infatti, riteniamo importante conoscere prima i reali bisogni dei vari villaggi per capire insieme a loro da dove cominciare. Cerchiamo di accelerare i progetti di lavori pubblici, avviando cantieri con manodopera locale con cui si realizzano scuole, pozzi, biblioteche ed ambulatori».
I ricordi più intensi? «Il rapporto costruito con tante persone del posto come con un ragazzo che lavorava nella nostra sede. Nessuno gli dava particolare retta; è bastato cominciare a scambiare qualche battuta per istaurare un rapporto più profondo ed entrare nel suo mondo. Ma uno dei momenti più forti è stato senza dubbio quello della scomparsa di un collega in un attentato. La tragicità dell’evento ha mostrato le pieghe più nascoste del dolore. Quando però il suo corpo, avvolto nel tricolore si è levato al cielo a bordo del nostro elicottero, sotto lo sguardo di tutti i colleghi delle varie nazionalità, ho avuto forte la sensazione che anche lì, in quella terra martoriata, si poteva costruire la fratellanza universale».
Nel processo di ricostruzione c’è un aspetto particolarmente interessante: il fatto che gli afgani comincino ad apprezzare maggiormente le istituzioni a livello provinciale. Un percorso che deve tuttavia fare i conti con alcuni ostacoli, primo fra tutti la corruzione, «una piaga che si sviluppa in tutti i settori, e che arriva finanche al sistema giudiziario, nella cui riforma l’Italia è Paese capofila tra le forze internazionali».
Come si pone un avvocato italiano nei confronti di un sistema giudiziario completamente diverso? «In effetti non è stato facile capire come applicare il diritto internazionale in quel contesto dove le libertà individuali e la stessa dignità umana spesso non sono rispettate e dove vige ancora la sharia. Gli afghani si fidano del tipo di legge fondata dai loro capi religiosi, dagli anziani, perché è un sistema molto più veloce e risolutivo rispetto al nostro. Bisogna avere tanta capacità di capire profondamente le diversità di quelle popolazioni se vogliamo offrire loro qualcosa di efficace».
Quale futuro? «La vera sfida degli anni a seguire, accanto a quella della sicurezza, riguarderà l’economia, lo sviluppo e l’occupazione. Dieci milioni di afghani vivono al di sotto della soglia di povertà. Oltre la metà delle famiglie (composte in media da sei persone), vanno avanti con due-quattro dollari al giorno».