Afghanistan, una mappa per capire
Perché gli Stati Uniti hanno deciso di ritirare dall’Afghanistan le loro truppe e quelle dei loro alleati? Quale è il ruolo del Pakistan? Chi finanzia i talebani? Cosa si può fare concretamente per la popolazione civile oltre a chiedere l’apertura dei corridoi umanitari?
Sono solo alcune delle domande che nascono davanti all’emergenza venuta alla ribalta in questa estate 2021 dopo 20 anni di una guerra decisa all’indomani dello spettacolare attentato terroristico sferrato l’11 settembre 2001 a New York.
Abbiamo raccolto il parere di Raffaele Crocco che è l’ideatore e il direttore dell’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, una pubblicazione periodica e di un sito sempre aggiornato che, offrendo una prospettiva internazionale, «prova a raccontare quello che accade scoprendo le cause che portano alle troppe guerre».
Crocco, giornalista della Rai, è anche direttore del portale Unimondo, nodo italiano del network internazionale OneWorld, nato a Londra nel 1995, che conta oggi 11 centri nel mondo e 1.600 associazioni partner.
Come mai gli Usa hanno abbandonato l’Afghanistan se per tanto tempo si è detto che tale Paese è il “crocevia del mondo”, centrale per governare le fonti energetiche e le vie di comunicazione? Lasciano in mano a Russia, Cina, Turchia e Iran la “patata bollente”, ma così facendo non perdono il controllo di un’area strategica decisiva?
Dal punto di vista della storia e degli interessi strategici, se ci pensiamo, gli Stati Uniti abbandonano dopo un tempo relativamente “breve” un’area che per loro è sempre stata scarsamente interessante. Vero: L’Afghanistan è su un asse strategico dal punto di vista dei traffici e del “controllo militare”, con i passi montani che permettono il passaggio dalla zona Cina – India all’Europa. Ma è strategica e rilevante per chi ha bisogno di una via di terra. Non a caso, tornano protagonisti i Paesi che da sempre sono in lotta per quell’area: Russia, Cina, India – che ha sostituito l’impero Britannico- e in misura minore Iran e Turchia. Agli Usa quella terra interessava soprattutto per creare un avamposto militare in grado di controllare Cina e Russia. Non dimentichiamoci che l’occupazione è iniziata nel 2001, quando gli Stati Uniti si percepivano – e venivano percepiti – come l’unica potenza militare mondiale. I costi di questa operazione si sono rivelati inaffrontabili, a fronte di risultati deludenti. A Washington sono tornati, probabilmente, a concepire una strategia di controllo planetaria basata sul mare e quindi l’Afghanistan ha perso di interesse.
Se quasi tutti concordano sul fatto che i talebani siano controllati dai servizi segreti pakistani, perché si lascia via libera al governo di Islamabad?
Il governo pakistano è stato comunque un ambiguo punto di equilibrio, per gli Usa, contro l’espansione del comunismo in Asia. Non dimentichiamoci che sino agli anni ’90 dello scorso secolo, l’islam non era in alcun modo un problema per gli Usa, che anzi lo trovavano utilissimo come “mano armata” là dove loro non potevano arrivare. Tutti i governi pakistani hanno avuto la benedizione di Washington, che ha anche armato le frange più estremiste del mondo islamico, Talebani compresi. Immagino che proprio alla luce di questa convenienza, il Pakistan è riuscito ad avere una arsenale nucleare, che ha quindi l’avallo – e non il timore – degli Usa.
Secondo l’ Istituto Affari internazionali l’errore degli Usa è stato quello di non impiegare un numero più elevato di militari nella guerra. Possibile che il più grande Paese militarizzato al mondo ceda il passo davanti a dei pastori contadini che non dispongono di forza aerea?
Qui la risposta è brutale: gli Stati Uniti non hanno voluto vincere la guerra. Fare una guerra significa puntare a vincere. Per vincere si deve usare il massimo del proprio potenziale in tutti i campi. Ora, questo è realizzabile solo ad alcune condizioni: come Paese mi difendo da un’aggressione. Oppure ho un sistema politico che giustifica la mia aggressività e mi permette di coltivare sogni di egemonia, più o meno condivisi dalla mia popolazione. Gli Usa in Afghanistan, come in Iraq, non si trovavano in alcuna delle due posizioni e quindi non potevano in alcun modo giustificare – agli occhi degli americani e dell’opinione pubblica mondiale – un impiego violento e totale dei mezzi. Questo ha reso impossibile la vittoria in uno scenario che vedeva – come avversari – uomini che conoscevano il terreno e che si sentivano illegittimamente attaccati. Teniamo anche presente che gli Stati Uniti, nonostante le loro forze armate, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale non hanno mai realmente vinto alcuna guerra.
Chi finanzia e arma i talebani?
La questione è delicata. Storicamente, i soldi sono arrivati dal Pakistan, dall’Arabia Saudita e da altri Paesi del Golfo Persico. Negli ultimi anni, le casse sono state rimpinguate anche dalle tasse che i Talebani facevano pagare nei territori che controllavano. Ora, per gli interessi in gioco, soldi arriveranno probabilmente dalla Cina, che sta stringendo rapporti economici importanti. Dal punto di vista militare, negli ultimi anni ai Talebani sono arrivati aiuti anche dagli Stati Uniti, che li hanno visti come un’utile barriera contro l’infiltrazione dell’Isis nell’area.
Oltre al fallimento della guerra dei 20 anni, possibile che l’associazionismo non riesca a chiedere altro che i corridoi umanitari? Giuliana Sgrena ha detto che ci vorrebbe una forza di interposizione dell’Onu. Ma non si esporrebbe tale forza militare, umiliata dalle decisioni dei grandi Paesi, ad un massacro senza l’uso deciso della forza?
Il fallimento di questi vent’anni è un fallimento profondo, di sistema. In Paesi che si dicono “democratici”, la responsabilità di una occupazione di questo genere – raccontata come una sorta di liberazione in nome della democrazia e del diritto – pesa sulle coscienze di ognuno di noi. Non abbiamo fatto abbastanza per raccontare la verità. Non abbiamo fatto abbastanza per vedere la verità. Inevitabilmente, le associazioni nulla possono dire, se non tentare di mettere una toppa all’emergenza immediata e costruire un alibi alla propria coscienza. Quanto poi all’impiego di una forza di interposizione – o come qualcuno ipotizza mettere in campo un nuovo intervento militare – siamo alla follia pura, a questo punto della partita. La realtà è che, al di là del tentativo di salvare il salvabile, non abbiamo strumenti. Non dimentichiamo, poi, che di fronte all’ipotesi dell’arrivo di profughi dall’Afghanistan, i governi europei hanno già chiuso le porte: i nostri sensi di colpa sono durati – se ci sono stati – il tempo di un passaggio al telegiornale.
Se, come dicono ormai in tanti, la Nato è superata e inutile nel suo essere subordinata agli Usa, quale sarebbe la missione di una forza di difesa europea? Ha un senso ipotizzare una sua forma di intervento nel territorio impervio dell’Afghanistan?
La Nato non esiste più dal 1991, cioè dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Quella che ci ostiniamo a chiamare Nato è un’altra cosa: è un’alleanza militare-politica pura, non difensiva, ma con tendenze imperialiste, impiegata dagli Stati Uniti e da alcuni alleati principali (leggi Inghilterra) per diffondere e difendere i propri interessi. Questa è la realtà, che ci viene raccontata dalle guerre sostenute (Kosovo-Serbia, Afghanistan) e dalle politiche attuate (allargamento dell’alleanza all’Est Europa). In questa ottica, una forza militare europea potrebbe rappresentare un superamento della Nato, anche se resta da capire come crearla: con scopi difensivi? Come forza militare capace di mettersi a disposizione della comunità internazionale per aiutare la risoluzione dei conflitti? Come strumento di aggressione economica e politica? C’è da capire sino in fondo cosa vogliamo come europei, prima di mettere in campo un esercito, anche se di piccole dimensioni come si ipotizza nel breve termine. Certamente, in ogni caso, si tratterebbe di un esercito non in grado di intervenire in un territorio come quello afghano.