Afghanistan e interessi nazionali, dialogo con Nico Piro
La missione militare italiana in Afghanistan si è conclusa il 30 giugno come ha dichiarato il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ricordando «con gratitudine i 723 feriti e con profonda commozione le 53 vittime italiane che hanno perso la vita al servizio della Repubblica» su un totale di 50 mila uomini e donne in divisa che si sono alternati in 20 anni di missione in un Paese segnato dalla guerra.
Guerini si era recato nella base di Herat per la cerimonia dell’ammaina bandiera lo scorso 8 giugno e in quella occasione ha voluto sottolineare la prontezza dell’Italia nel «fare la propria parte», al fianco dei propri alleati, «in quella che venne denominata la “Guerra al Terrore”, partecipando all’Operazione Enduring Freedom, dal novembre 2001 al settembre 2013» e poi in tutte le missioni concordate e definite con la Nato.
È evidente la mancanza, in Italia, di un vero dibattito e confronto sul ritiro delle truppe tricolori in conseguenza dell’accordo globale siglato a Doha, in Qatar,il 29 febbraio 2020 tra l’amministrazione statunitense dell’era Trump e i rappresentanti dei talebani. Il movimento estremista degli studenti coranici esprime un crescente predominio militare in Afghanistan nonostante le migliaia di miliardi di dollari (4.200) spesi dal governo Usa per garantirsi il controllo di quel territorio che viene comunemente definito il “crocevia del mondo”. O, più correttamente, “la tomba degli imperi” in considerazione del fallimento subito, in diverse epoche storiche, da parte dell’esercito britannico, di quello sovietico e, ora, di quello statunitense, comprensivo dei suoi alleati.
Sorprende il tono dimesso dell’abbandono del territorio da parte degli Usa che lasciano le forze governative di Kabul senza quel supporto necessario per resistere all’avanzata talebana. L’ultimo contingente militare statunitense dovrebbe abbandonare il Paese entro l’11 settembre ma anche prima secondo le ultime dichiarazione di Biden
La guerra continua e il numero delle vittime tra i militari e la popolazione civile in questi anni sta a dimostrare che le truppe coinvolte, anche quelle italiane, sono state impegnate in operazioni di combattimento ingaggiate, secondo le intenzioni, per stroncare il terrorismo e il mercato dell’oppio.
Obiettivo non raggiunto, anzi aggravato, secondo Nico Piro, giornalista di inchiesta e inviato Rai, che abbiamo sentito quale conoscitore diretto della situazione afghana a cui ha dedicato ben 2 libri ponderosi, uno dei quali, nel 2015, già definiva come “incompiuta” la missione dell’esercito Nato in quel Paese che resta per tanti versi sconosciuto e incomprensibile.
Con il controllo progressivo dei distretti afghani da parte dei talebani è facilmente prevedibile l’esodo in massa della popolazione civile che andrà ad incrementare il flusso delle migrazioni intercettate in parte dalla Turchia di Erdogan, finanziata a questo scopo dalla Unione europea. Il resto delle persone in fuga cercherà di seguire la Rotta balcanica, piena di insidie e di pericoli, andando ad ingrossare i campi profughi in Bosnia.
Sorte migliore è toccata agli oltre 200 interpreti e collaboratori afghani dell’esercito italiano che il governo di Roma ha deciso, opportunamente, di trasferire direttamente nel nostro Paese, assieme alle loro famiglie, per sottrarli a ritorsioni e vendette.
Proprio in considerazione di tali risultati controproducenti, desta sorpresa, a parere di Nico Piro, la carenza di dibattito pubblico sul senso e la finalità della missione militare italiana intrapresa in base alla strategia adottata dall’amministrazione statunitense di George W. Bush all’indomani del traumatico attentato portato da al Qaeda nel cuore di New York l’11 settembre del 2001.
Secondo la triste contabilità evidenziata dall’Ispi, in questi 20 anni hanno perso la vita ben 3.600 militari della coalizione internazionale (2.500 quelli statunitensi) mente ammontano a oltre 70 mila il numero dei morti tra i civili afghani.
Ora, la nuova visione strategica di Washington, senza soluzione di continuità tra Trump e Biden, decide di spostare l’asse dell’intervento militare nella competizione con la Cina e nell’area instabile del cosiddetto “Mediterraneo allargato”. Un concetto, quest’ultimo, che il nostro ministero della Difesa definisce in tal modo: «il Mediterraneo non è solo Sud e, per definizione, è un connubio di terra, mare e cielo. Il suo spazio fisico si è spinto oltre le sponde Nord e si estende anche ad oriente e occidente, coinvolgendo l’ambiente che dall’Artico arriva al Golfo di Guinea e dall’Africa occidentale attraversa il Sahel congiungendosi al Golfo di Aden».
Davanti a tale ampio scenario, secondo l’indirizzo prevalente del nostro governo espresso dai vertici della Difesa, «il nostro Paese dovrebbe dotarsi di una Strategia Nazionale di Sicurezza» con una proiezione internazionale non affidata solo «ai consessi più estesi (ONU, NATO e UE, in primis)» ma anche a forme più flessibili di collaborazione (anche eventualmente come Coalition of the Willing cioè “coalizione dei volenterosi”) a livello bi-multilaterale, che talvolta risultano più tempestivi e indicati per prevenire o risolvere crisi locali nelle aree dove appaiono minacciati o lesi i preminenti interessi nazionali».
Ma è proprio la definizione di questi «preminenti interessi nazionali» che dovrebbero essere al centro di un vero dibattito politico perché tali formule non sono concetti astratti ma obiettivi concreti da realizzare con costosi e impegnativi interventi militari, realizzabili, quindi, non solo con l’autorizzazione dell’Onu o in base alle procedure della Nato ma in forza di pragmatiche “coalizioni di volenterosi”.
Per questo motivo è importante approfondire quello che accade ora in Afghanistan a partire da alcune domande proposte nel dialogo con Nico Piro: Cosa sta accadendo in Afghanistan? Come mai le truppe Usa se ne stanno andando in maniera così defilata mentre avanzano i talebani? Chi finanzia i Talebani? Quali effetti sono prevedibili sui flussi migratori dei prossimi mesi? Che ruolo possono giocare i Paesi limitrofi? Ma soprattutto: perché siamo andati in Afghanistan?