Afghanistan, guerra e diritti umani
La questione Afghanistan irrompe nel dibattito pubblico italiano davanti alle tragiche immagini che arrivano dall’aeroporto di Kabul. Una fine del mondo con le persone che cercano di fuggire dal Paese dopo la veloce riconquista del potere da parte delle forze talebane.
Una fuga precipitosa e disordinata dopo tutto il tempo avuto a partire dal 29 febbraio 2020, data dell’accordo siglato a Doha nel Qatar tra i rappresentanti dei talebani e il sorridente italo americano Mike Pompeo, allora segretario di Stato dell’amministrazione Trump.
Resta difficile credere che la superpotenza militare statunitense si faccia imporre il 31 agosto come termine massimo per completare l’evacuazione del personale occidentale e dei collaboratori locali.
Nico Piro, inviato speciale della Rai è una delle fonti più credibili e attente da sempre alla situazione di quel Paese come si può riscontrare dal suo editoriale pubblicato sulla nostra rivista di luglio e dall’intervista audio presente in questo sito.
La strategia statunitense, secondo Dario Fabbri, analista di Limes, era e rimane quella di cedere il problema irrisolvibile dell’Afghanistan ai nemici degli Usa, Cina Russia e Iran, e alle potenze locali.
Resta il fatto che è difficile capire come muoversi senza conoscere i dettagli dell’accordo di Doha, che dovrebbero essere invece accessibili secondo Leonardo Tricarico, generale ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica e presidente della Fondazione Icsa, centro di analisi militare e geopolitica.
Marta Dassù, direttrice di Aspenia, parla di una «patologica dipendenza dalle decisioni di un’America che sceglie per sé e per gli altri, in base a logiche di politica interna prima che di politica estera» e, in tal modo, «getta un’ombra preoccupante sul futuro dei rapporti fra Europa e Stati Uniti».
Un parere pesante quello della Dassù, dato che è l’esperta italiana chiamata a far parte della squadra che deve elaborare il nuovo concetto strategico della NATO.
La parola “Guerra”
Quanto sta accadendo in questi giorni costituisce una lezione da apprendere per il nostro Paese secondo l’analisi di Michele Nones, Stefano Silvestri e Vincenzo Camporini, esponenti di primo piano dell’Istituto affari internazionali (Iai), notoriamente ascoltato con interesse in ambito politico e istituzionale. Per i tre esperti non è una sconfitta militare ma di politica internazionale perché «dalla fine della Guerra Fredda in poi abbiamo sperimentato una sorta di vuoto strategico».
La radice di questa mancanza risiederebbe per tali studiosi, nella «diffusa volontà di non parlare di “guerra”, ma di ristabilimento o mantenimento della pace o ricostruzione degli Stati di volta in volta coinvolti». Secondo tale tesi la guerra deve avere obiettivi precisi e limitati come quello di «negare ai gruppi terroristici islamici la disponibilità di un territorio» e non la «costosissima costruzione di uno stato artificiale». E per raggiugere tali finalità occorre impiegare le forze giuste: non si può, per gli esperti dello Iai, pretendere di controllare un territorio complesso come l’Afghanistan , grande due volte la Germania, con 140 mila soldati mentre per occupare il Kossovo, esteso come l’Umbria, la Nato ha schierato una forza di 60 mila unità.
L’obiettivo di questa tesi è quindi quello di adottare una chiara strategia europea comune e cambiare il Libro bianco della Difesa approvato nel 2015 per smetterla con «la litania delle “missioni di pace”» e «lasciare il posto alla consapevolezza che, per conseguire gli obiettivi politici che ci si prefiggono, le missioni militari comportano l’uso della forza».
Una guerra giusta?
Ovviamente si tratta di analisi che distinguono la gestione errata di una guerra che resta, comunque, a loro parere “giusta” e inevitabile quale risposta all’attacco delle torri gemelle dell’11 settembre 2001. Ne resta convinto Michel Walzer il teorico moderno della guerra giusta, l’esponente liberal , molto ascoltato in Italia, che ha ricoperto le cattedre più autorevoli negli Usa e si dice ora convinto che «se avessimo inviato 500 mila truppe subito e occupato il Paese, forse sarebbe andata diversamente».
Ma «i diritti delle donne erano un motivo per intervenire?», gli ha chiesto Viviana Mazza intervistandolo per il Corriere della Sera. «Non è mai stata la ragione originaria. Era una guerra difensiva contro il regime che appoggiava Al Qaeda che ci aveva attaccato», ha risposto Walzer.
Estremamente minoritaria sembra essere attualmente la posizione di chi, fin dal principio, si è sempre opposto alla soluzione dei bombardamenti sull’Afghanistan iniziati dagli Usa il 7 ottobre del 2001. Non certo per vicinanza con il regime talebano ma per l’inutilità di una strategia destinata a produrre altre morti e distruzioni senza operare un reale cambiamento in quel Paese. Lo ha detto e ribadito fino alla fine dei suoi giorni Gino Strada, fondatore di Emergency, scomparso improvvisamente lo scorso 13 agosto. In un intervento pubblicato su La Stampa la vigilia di Ferragosto, il famoso chirurgo di guerra ha riportato i dati della prestigiosa Brown University che parlano di un “costo della guerra” dei 20 anni in Afghanistan pari a circa «241 mila persone vittime dirette della guerra e altre centinaia di migliaia sono morte a causa della fame, delle malattie e della mancanza di servizi essenziali».
Il costo della guerra
Da parte occidentale la contabilità del disastro riporta 2.448 caduti tra i soldati Usa, oltre a 3.846 contractors privati. Gli altri componenti della Nato hanno perso 1.144 membri delle forze armate (53 italiani). Senza dimenticare la morte di 444 operatori umanitari e 72 giornalisti.
Gino Strada rimproverava ai politici italiani di non essersi opposti a questa chiamata alle armi ricordando che «il 7 novembre 2001, il 92 per cento circa dei parlamentari italiani approvò una risoluzione a favore della guerra».
Ma i numeri sarebbero incompleti se non tenessimo conto dei soldi spesi per questa guerra che, secondo Strada, era già stata programmata da Clinton nell’autunno del 2000. «Per finanziare tutto questo, gli Stati Uniti hanno speso complessivamente oltre 2 mila miliardi di dollari, l’Italia 8,5 miliardi di Euro. Le grandi industrie di armi ringraziano: alla fine sono solo loro a trarre un bilancio positivo da questa guerra».
Da parte sua chi come Giuliano Ferrara, fondatore de Il Foglio, ha sempre sostenuto le ragioni della guerra al fianco degli Usa, continua a ritenere sacrosanta la scelta dei «bombardamenti che liberarono l’Afghanistan dall’oppressione talebana e dal terrorismo in essa nutrito e protetto».
Chi sostiene i terroristi?
È decisamente molto più complesso definire chi sostiene il terrorismo secondo il direttore di Limes , Lucio Caracciolo, il quale riporta un fatto noto a tutti gli analisti e cioè che «i talebani sono prolungamento dei servizi segreti (Isi) e delle Forze armate pachistane». Un dettaglio non da poco considerando il fatto che il Pakistan rientra nel club dei detentori dell’arma atomica e che il 27 luglio, come riporta l’osservatorio internazionale della Luiss, ha rinnovato un accordo strategico con l’Arabia Saudita relativo alla sicurezza della regione: il Saudi Pakistan Supreme Coordination Council (SPSCC),
Il ministro della difesa Lorenzo Guerini e quello degli Esteri Luigi Di Maio dopo una prima informativa in commissione Difesa, riferiranno sul ritiro dall’Afghanistan il prossimo 7 settembre ma la situazione è instabile e aperta ad ogni possibile involuzione. Compreso lo scatenarsi di un nuovo casus belli.
L’Italia e i Paesi europei, oltre a preoccuparsi dell’evacuazione possibile per alcuni civili afghani da sottrarre a ritorsioni e vendette, temono soprattutto l’ondata degli sfollati ingestibile con i numeri ipotizzati in questi giorni e sono intenzionati a finanziare altri stati disposti a contenere l’ondata migratoria destinata altrimenti a premere sui confini dell’Unione europea, come avviene, ad esempio, su quella rotta balcanica dove, come abbiamo ampiamento riferito su cittanuova.it, si continuano a consumare gravi violazioni dei diritti umani.
L’iniziativa del presidente del consiglio Mario Draghi di convocare a settembre un vertice straordinario del G20 prende atto della necessità ineludibile di trovare una strategia condivisa con gli altri Paesi, a partire da Cina, Russia, Turchia e Arabia Saudita.
Cioè con interlocutori che non rispondono a quei criteri di rispetto dei diritti umani secondo lo standard occidentale. In particolare l’Arabia Saudita che Alberto Negri, inviato agli esteri con una lunga esperienza sul campo, definisce i “nostri talebani” nel senso che «gli Usa, la Nato, l’Italia, vendono armi e lisciano il pelo a monarchie assolute e oscurantiste come l’Arabia Saudita».
Senza dimenticare il Qatar che intrepreta il ruolo di mediatore tra Usa e talebani proprio per lo stretto rapporto intrattenuto con questi ultimi durante i 20 anni di guerra in Afghanistan. È nota, tra l’altro, la pessima condizione riservata alle centinaia di migliaia di lavoratori migranti addetti alla costruzione delle infrastrutture legate ai prossimi mondiali di calcio del 2022 in Qatar.
Solo poche organizzazioni, tra le quali Amnesty international e Pax Christi, si sono mosse per sollevare un problema messo a tacere dagli interessi prevalenti del calcio spettacolo. D’altra parte il Qatar ha forti investimenti in Italia, ad esempio nel campo immobiliare e della sanità in Sardegna senza dimenticare la proprietà dei grattacieli milanesi di Porta nuova a Milano da parte di un fondo sovrano qatariota. Non lontano dalla sede centrale di Emergency che ha accolto per un ultimo saluto i resti di Gino Strada al quale qualcuno propone di dedicare la piazza intitolata a Cadorna, il comandante della prima guerra mondiale. Idea condivisa dal direttore di Avvenire Marco Tarquinio, ma difficile da realizzare dato che restano irrisolti troppi nodi della nostra storia, recente e passata, nel rapporto con la guerra.