Adrian Paci, il viaggio, l’attraversamento, l’attesa
Risposi anch’io all’invito esteso dall’artista Adrian Paci nell’agosto del 2011 a Scicli. Convenire per l’insolito appuntamento di una performance. Il richiamo superò le attese. Arrivammo in più di seicento ad affollare il sagrato della Chiesa di san Bartolomeo della cittadina barocca del ragusano immersa in una vallata di pietra. Sul sagrato solo una sedia e l’artista. In piedi, in abito elegante, stringeva uno ad uno le mani alle persone che, disposte in fila ai margini del muretto, sfilavano davanti a lui. Un rito quotidiano che si trasformò in una processione, atto simbolico collettivo, scambio e condivisione fra diversità e culture. A quel semplice gesto della stretta di mano, presente nella nostra quotidianità ma anche in vari rituali antichi, nei matrimoni e nei funerali, l’artista albanese conferiva una dimensione profonda e complessa, ricca di potenzialità e stratificazioni, attivandolo come gesto per far nascere altre possibilità simboliche. Anche la piazza, emblema del tessuto connettivo di un territorio, era la protagonista dell’evento in quanto spazio vissuto dalla gente. E quale posto più appropriato della Sicilia – dichiarò Paci –, terra di attraversamenti culturali, punto di incontri, scontri, scambi, arricchimenti, dove quel gesto potesse evocare molte dimensioni?
La performance dal titolo The encounter, diventata un’opera di video-art, la ritroviamo in alcuni scatti fotografici presenti nella mostra Adrian Paci. The Guardians allestita a Milano, nei suggestivi spazi del Complesso Museale Chiostri di Sant’Eustorgio, che comprende un importante nucleo di fotografie, video, sculture, mosaici che riflettono i diversi periodi creativi dell’artista. E il percorso espositivo inizia proprio con alcune opere in cui Paci utilizza la fotografia.
Tra queste troviamo il dittico The Line che ritrae una fila di persone in attesa di un aereo che non c’è, su una pista di decollo deserta. L’immagine fa parte della sua opera forse più emblematica, e più che mai attuale: Centro di permanenza temporanea. Si tratta di una video-installazione del 2007 che riprende una lunga fila di immigrati mentre salgono le scalette di un aereo per imbarcarsi. Inizialmente la ripresa dal basso inquadra i passi di questi uomini, come se fossero in marcia, che procedono uno a uno lentamente, uno dietro l’altro. Poi ci sono i volti silenziosi, profili duri e sguardi persi. Infine l’inquadratura si allarga e li ritroviamo fermi, bloccati sulla scala abbandonata in mezzo alla vasta pista dell’aeroporto. Senza l’aereo. Che sarà decollato lasciandoli sospesi, in una terra di nessuno. Un ritratto eloquente della condizione degli immigrati che rimanda al dramma dell’identità degli immigrati trattenuti in vista di un’espulsione certa. I temi sociali di denuncia, di perdita, di abbandono, cari all’artista li ritroviamo nelle altre opere in mostra.
Come l’opera-video Rasha, il volto di una donna palestinese ripreso in primo piano mentre racconta la propria storia. La sua vicenda trova espressione sul suo volto prima ancora che nelle sue parole, per esprimere come l’esperienza vissuta possa essere tramandata non solo verbalmente. Il video è frutto dell’incontro di Adrian Paci con la donna giunta in Italia dalla Siria grazie ai corridoi umanitari.
Tra i lavori esposti c’è anche la celebre Home to go, scultura del 2001 in cui l’artista stesso si fa carico sulla schiena del tetto della sua casa, emblema del migrante, spoglio di tutto, che nello sforzo di quel gesto assume il peso di una condizione, con tutto quello che questa metafora evoca, compresa la propria dimensione personale (migrante lui stesso, essendo arrivato in Italia nel 1992, epoca in cui i suoi concittadini fuggivano dal paese sbarcando da navi fatiscenti).
Il racconto di un altro sradicamento è nel video-ritratto Klodi, un uomo costretto a vagare per anni, in un periplo drammatico e assurdo, la cui conclusione è ignota. Più recente è il video My song in your kitchen, in cui attività quotidiane, come cantare o cucinare, diventano condensati di storie e di memorie, e trasformano un luogo impersonale, come la cucina di una mensa, in uno spazio di intimità e di relazione. Non mancano opere in cui l’artista rilegge la storia del proprio paese evocando il dramma della dittatura, con ogni forma di libertà soffocata e messa al bando, comprese quelle di espressione e di fede.
Il titolo Malgrado tutto raccoglie una serie di fotografie dei graffiti tuttora presenti sulle pareti delle celle di un antico monastero che all’epoca funse da prigione. Segni fragili, ma resistenti, che rivelano sofferenze vissute nel silenzio, ed una inalienabile necessità di espressione.
In The Guardians c’è un cimitero cattolico dismesso durante la dittatura, e oggi recuperato, animato da bambini pagati per mantenerlo in ordine. Essi, portatori di vitalità, conferiscono all’opera lo stato di simbolo della rinascita del paese. «Per Adrian Paci – afferma nel catalogo della mostra il curatore Gabi Scardi – l’arte è ricerca di senso indotta da necessità interiori, e un modo attivo di pensare la contemporaneità. Nel suo lavoro convivono l’osservazione per le dinamiche sociali del presente, l’attenzione per la densità simbolica dei gesti e un interesse per le possibilità interpretative delle immagini che nasce dalla profonda familiarità con la storia dell’arte».
«Motivi per lui centrali – continua il curatore – sono il viaggio, l’attraversamento, l’attesa, che è anzitutto attesa di futuro, e il rapporto con il luogo e il tempo dell’origine, che non sono tanto dimensioni alle quali tornare, quanto riferimenti profondi da portare con sé, e da valorizzare. La migraticità, che spinge a immaginare nuovi modi di vivere, nuove forme di relazione con il contesto, e anche nuovi linguaggi artistici con i quali esprimersi, costituisce, per Paci, la condizione più propria dell’uomo e dell’artista».
“ADRIAN PACI. The Guardians”, Milano, Complesso Museale “Chiostri di Sant’Eustorgio”, mostra prorogata fino all’ 1 ottobre 2017.