Adrian Paci, artista migrante

Giunto dall'albania a Milano per studiare arte. Nelle sue opere, che spaziano dalla pittura alle videoinstallazioni, racconta di chi costretto a lasciare la patria vive da nomade e da sospeso. Anche la dimensione spirituale si configura come grande ricerca
Adrian Paci

La sua opera, forse più emblematica, e più che mai attuale per i riflettori puntati sulle ricorrenti tragedie di Lampedusa è Centro di permanenza temporanea. Una video-installazione del 2007 che riprende una lunga fila di immigrati mentre salgono le scalette di un aereo per imbarcarsi. Inizialmente la ripresa dal basso inquadra i passi di questi uomini, come se fossero in marcia, che procedono uno a uno lentamente, uno dietro l’altro. Poi ci sono i volti silenziosi, profili duri e sguardi persi. Infine l’inquadratura si allargherà e li ritroveremo fermi, bloccati sulla scala abbandonata in mezzo alla vasta pista dell’aeroporto. Senza l’aereo. Che sarà decollato lasciandoli sospesi, in una terra di nessuno. Un ritratto eloquente della condizione degli immigrati che rimanda al dramma dell’identità degli immigrati trattenuti in vista di un’espulsione, certa.

All’artista albanese il Pac di Milano dedica una retrospettiva dal titolo Vite in transito dove si definiscono immediatamente  i temi sociali di denuncia, di perdita, di abbandono, cari all'artista: L'albanese Adrian Paci, classe 1969, è arrivato in Italia nel 1992, epoca in cui i suoi concittadini fuggivano dal loro paese sbarcando da navi fatiscenti. Lui arriva a Milano con una borsa di studio per studiare arte. Colleziona, via via, riconoscimenti importanti (il premio della XV Quadriennale d'arte di Roma), partecipa a Manifesta, Biennale di Venezia. Alcune sue opere entrano in collezioni e musei a New York (Guggenheim e MoMa), Parigi (Centre Pompidou) e Barcellona (La Caixa).

Nel lavoro sia pittorico che fotografico e cinematografico, Paci racconta con poesia e lucidità, le grandi emigrazioni – dai paesi dell'ex Unione Sovietica dopo la caduta del Muro di Berlino, ai disoccupati di Turn on; dai volti devoti e tristi dei fedeli in preghiera davanti all'icona sacra di PilgrIMAGES al dolore intenso, quasi religioso della prefica che accompagna il passaggio dalla vita alla morte in Vajtojca. Tra le opere in mostra, a partire dagli ‘90 fino alle produzioni più recenti, c’è l’ultima Enncounter, del 2011, realizzata a Scicli, dove l'artista stesso stringe le mani, una ad una, dei presenti venuti a salutarlo. Qui, in risposta all’invito dell’artista, accorsero in più di seicento nella cittadina del ragusano immersa nella vallata di pietra. Sul sagrato della chiesa barocca di san Bartolomeo, solo una sedia e, ai margini del muretto, una lunghissima fila di gente convenuta per l’insolita performance: una stretta di mano. Un rito quotidiano che si è trasformato in processione, atto simbolico collettivo, scambio e condivisione fra diversità e culture.

Nelle sue opere ricorre spesso il tema dell'immigrazione, del nomadismo
«Avendola vissuta in prima persona, nel bene e nel male, quest'esperienza che ha scombinato la mia identità, è diventata materia per il mio lavoro. M'interessa soprattutto la figura dell'immigrato come persona nel suo continuo divenire, che lascia il suo contesto iniziale e si muove verso un altrove in relazione al quale deve mettere in discussione anche la proprie radici.

Nell’affrontare il tema della stretta di mano, quale significato ha voluto dare a questo gesto?
Più che un tema è, appunto, un gesto, presente nella nostra quotidianità ma anche in vari rituali antichi. Lo ritroviamo nei matrimoni e nei funerali. Nella sua semplicità raccoglie una dimensione profonda e complessa, ricca di potenzialità e stratificazioni. Come artista, cerco di attivarlo come gesto per far nascere altre possibilità.

Anche la piazza, emblema del tessuto connettivo di un territorio, è presente nella sua performance
Cercavo un luogo dove la piazza fosse anche protagonista e, appunto, uno spazio vissuto dalla gente. Lo cercavo nel meridione. E non poteva esserci posto più appropriato della Sicilia, terra di attraversamenti culturali, punto di incontri, scontri, scambi, arricchimenti, dove questo gesto può evocare molte dimensioni.

Il materiale d'indagine delle sue opere, spesso, comprende la dimensione religiosa. Da cosa nasce?
Forse da una certa sfiducia verso l'uomo "nuovo" che la società sta creando e imponendo, cioè una nuova schiavitù consumistica, una specie di "areligiosità" un po' stupida. Non sono interessato a discorsi confessionali, devozionali; rispetto le posizioni atee o agnostiche. Credo, però che l'uomo, privato di questa dimensione che è parte costitutiva del suo essere umano, risulti più impoverito.

Lei ha vissuto in un regime ateo, ma la sua famiglia era cattolica…
Il regime proibiva totalmente la religione. Essa mi è stata trasmessa in casa in modo clandestino. Mio padre, un artista, teneva in casa dei libri dei maestri della pittura, e mia nonna li utilizzava per raccontarmi le storie del Vangelo che, ovviamente, non si poteva tenere. In questo modo mi sono anche formato alla pittura.

Qual è il ruolo dell'artista oggi?
Questa è una domanda difficile. Non credo che l'artista abbia oggi un ruolo molto diverso da quello che ha sempre avuto. Egli può offrire al pensiero, all'immaginazione, alla percezione, una nuova possibilità: di comprensione, di conoscenza, di apertura.

Nella sua arte vuole trasmettere qualcosa?
Non credo nell'opera utilizzata dall'artista per dire qualcosa che lui, si presume, sappia, a delle persone che non sanno. L'opera nasce anzitutto perchè l'artista è curioso, vuole sapere. Io oggi, con la stretta di mano, volevo fare un'esperienza e ricevere qualcosa dagli altri.

ADRIAN PACI,Vite in transito, PAC Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano, dal 5 ottobre al 6 gennaio 2014

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