Addio Philip Roth

È scomparso il grande, talentuoso, geniale, fecondo scrittore, nel pieno di un’epoca cruciale, stramatura e decadente, difficile e per certi versi inaccettabile come quella che stiamo vivendo dall’ultimo quarto del ‘900.

Morte su sfondo newyorkese, come quasi tutta la sua narrativa, quella di Philip Roth, scomparso ieri a 85 anni per insufficienza cardiaca in un ospedale della Grande Mela. Val la pena di notare che il celebre romanziere ebraico americano, candidato da tempo al Nobel, ha tolto il disturbo proprio l’anno in cui il Premio dell’Accademia Svedese per la letteratura non è stato assegnato, e per ragioni non proprio edificanti (corruzione, scandali sessuali ecc.).

Inoltre si può ricordare che dal 2013 Roth si era “autopensionato”, dichiarando allora che non avrebbe più scritto neanche una riga né riletto una sola pagina delle migliaia che aveva prodotto in quasi 50 anni di attività letteraria. Nemesi è stato il suo ultimo romanzo, pubblicato nel 2010. E Philip è stato di parola, fino a ieri, per l’intero ultimo lustro della sua vita.

Come se non bastasse, in questo momento i parenti di Roth starebbero già provvedendo a distruggere tutte le carte e l’archivio dello scrittore (inediti, testi incompiuti ecc.), per rispettare in tal modo la sua espressa volontà testamentaria. Tutto questo per dire che la triste notizia di ieri sulla morte, con Roth, di uno dei più grandi e rappresentativi narratori contemporanei piove in un contesto da ultimi-giorni-di-Pompei per la letteratura, ogni tanto data per spacciata da un secolo in qua – cinema, tv, social, bestseller di cassetta quanto culturalmente nulli, i killer di volta in volta indiziati – e sempre grazie al cielo puntualmente riavutasi.

Stavolta per consolarci si può andare a rivedere quello che Roth ci lascia, un imponente patrimonio letterario di non meno di una cinquantina di titoli fra romanzi (25ca.), racconti (45ca.) e 5 o 6 saggi e libri di memorie. Da alcuni capolavori sono stati tratti dei film, che però data la complessità di questo autore, non adatto a tutti i palati, sono passati un po’ inosservati.

L’ultimo è stato quello tratto da American pastoral, con lo stesso titolo, diretto da Ewan Mc Gregor, del 2016. Sbalorditiva, oltre una ventina, è anche la serie di premi e riconoscimenti inanellati da Roth, che vanno dal Pen/Faulkner Award (’93) al Pulitzer (del ’98), dal Pen/Saul Bellow (2007) all’attribuzione della Legion d’Onore, in Francia, nel 2013, l’anno del ritiro dal Monte delle Muse.

Arte, poesia, temi, atmosfere di Roth non sembrano distaccarsi molto dalla narrativa statunitense tardonovecentesca nota al pubblico, a cominciare da Saul Bellow, correligionario fra l’altro di Roth. C’è l’America che macina vita e produzione, progresso e violenze, e dove non si colma facilmente l’abisso a volte sconfinato fra i ritmi (e i valori) della provincia e il tenore convulso delle grandi città, in primis New York, teatro prevalente, ma non unico, dei libri di Roth.

Quindi c’è il secondo e l’ultimo ‘900 con le sue contraddizioni e i suoi fallimenti, gli uomini sconfitti e disillusi del tramonto del secolo, gli amori impossibili, la famiglia sempre più difficile e la gioventù con sempre meno sostegni e punti di riferimento. Ma oltre a questo sfondo, a questo contesto “storico”, nei libri di Roth c’è molta cultura, molte suggestioni, memorie, molta ideologia e politica, cultura sindacale perfino, temi da lui trattati con un registro in bilico tra la satira e il dramma, tra il realismo e l’autobiografia.

Religiosità, ateismo, Dio, il nulla, i valori affermati, i valori traditi, le passioni che fanno vivere ma che ingannano, alla fine travolgendo certi protagonisti delle storie rothiane. Insomma tutto il mondo di un grande, talentuoso, geniale, fecondo scrittore del più grande paese del pianeta nel pieno di un’epoca cruciale, stramatura e decadente, difficile e per certi versi inaccettabile come quella che stiamo vivendo dall’ultimo quarto del ‘900.

Il confine – atteso, temuto, attraversato e infine dimenticato – fra il secondo e il terzo millennio ha lasciato forse in Roth l’impronta più pronunciata e sofferta che in qualsiasi altro scrittore attivo fra XX e XXI secolo. Lo dimostrano i migliori dei suoi libri: da Lamento di Portnoy (1969) a Pastorale americana (1997), da Ho sposato un comunista (1998) a La macchia umana (2000), da L’animale morente (2001) a Il complotto contro l’America (2004), da Il fantasma esce di scena (2007) a Indignazione (2008) e Nemesi (2010), il testamento letterario di Roth, se così vogliamo considerarlo.

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