Addio Little Richard, leggenda del rock
Richard Wayne Penniman – in arte Little Richard – ha lasciato un’impronta indelebile sul primo rock’n’roll, e dunque gran parte di ciò che ne seguì porta anche il segno della sua eredità.
Figlio del profondo sud statunitense – era nato a Macon in Georgia nel 1932 – era il terzo di dodici figli ed era cresciuto avvolto dalla forte religiosità della sua famiglia. Figlio d’arte – i suoi avevano fondato i Penniman Singers, un gruppo gospel che si esibiva nelle chiese della zona – il piccolo Richards cominciò ben presto a nutrire il proprio talento con il blues, il boogie-woogie e il rhythm’n blues, in un clima dove la segregazione razziale dominava i panorami sociali dell’epoca, aggravata nel suo caso da episodi di bullismo che i suoi modi effemminati e la camminata sghemba per un difetto alle gambe gli procurarono per gran parte dell’adolescenza.
Dopo i primi passi nello show-business all’inizio degli anni Cinquanta, arrivò al successo nel ’55, con un brano che resta tuttora il suo classico inconfondibile: Tutti Frutti, dove la sua dirompente energia s’accoppiava ad un testo praticamente privo di senso e proprio per questo perfetto per far da colonna sonora a una nuova generazione giovanile desiderosa d’emanciparsi e distanziarsi in ogni modo dal mondo degli adulti. Da lì a poco arrivarono altri classici destinati a diventare altrettanti standard, come Lucille, Long Tall Sally, Slippin’ and slidin’: musica assolutamente nera, ma che cominciava ad intrigare tremendamente anche le platee dei bianchi. In questo senso a Richard – così come a Bo Diddley e Chuck Berry – va indubbiamente sottoscritto il merito d’aver dato un contributo essenziale non solo all’emancipazione degli afro-americani, ma anche alla diffusione planetaria della loro cultura.
Ritornò alla religione evangelica alla fine della decade divenendo predicatore e ritrovando le antiche radici gospel, ma con l’esplosione della sub-cultura rock tornò a fare concerti in tutto il mondo, anche grazie alla promozione entusiastica che ottenne da tante stelle dell’epoca – dai Beatles ai Rolling Stones fino a Jimi Hendrix (che all’inizio della carriera fu chitarrista nella sua band) – che non nascosero mai l’influenza di Richards nel loro stile.
Più tardi virò verso il soul e poi il funky, ma nel frattempo la sua vita privata – fatta d’eccessi e abusi d’ogni genere – lo portò pericolosamente sull’orlo del delirio, col corredo di non pochi problemi giudiziari. Si riprese negli anni Ottanta, rinnegando gran parte del suo passato nel segno di una rinnovata fede evangelica fatta di predicazioni spettacolari e concerti gospel. Con l’avanzare dell’età le sue apparizioni si diradarono, ma non le attestazioni di stima da parte di molte stelle, da Bowie a Freddy Mercury, passando per Bob Dylan e Michael Jackson che s’accaparrò i diritti di sfruttamento delle sue canzoni.
Un caposcuola, insomma, sia nell’uso della voce (la sua inconfondibile vocalità stridula è un marchio di fabbrica tutt’ora scimmiottato da un’infinità epigoni) che per uno stile pianistico che sapeva fondere un’istintività selvaggia a virtuosismi notevoli.
Wop-bop-a-loo-mop-alop-bom-bom: la leggendaria Tutti Frutti iniziava così, e divenne uno degli incipit più memorabili della storia del rock. Non so quanto Richard ne fosse cosciente, ma per molti versi l’essenza iconoclasta del rock’n’roll si può spiegare anche così. Riposa in pace, Riccardino.