Jeffrey Tate, un grande direttore
La morte improvvisa del direttore inglese, 74 anni, mentre stava visitando, da innamorato dell’arte italiana, l’Accademia Carrara a Bergamo, ha sorpreso e addolorato chi ne ammirava, oltre alla sapienza musicale, il coraggio umano. Tate infatti, afflitto alla colonna vertebrale da un malattia che lo costringeva a stare seduto, era un uomo che conosceva la sofferenza ed aveva già guardato in faccia la morte almeno due volte, ad Amburgo e a Napoli. Ma si era ripreso e aveva continuato a dirigere – come lo scorso 30 e 31 maggio a Bolzano -, opere e concerti con un gesto che negli anni si era fatto più corto, essenziale, filo diretto con la sua anima.
L’ho incontrato tempo fa nel camerino all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia in Roma. Occhi luminosi, un buon italiano, volto rubizzo, gentile e amabile.
Riportiamo stralci di quel piacevole incontro.
Tate era uno che non pensava di diventare direttore d’orchestra. Anzi, credeva di “non aver la forza per farlo”.
Jeffrey Tate, inglese di Salisbury, la musica però l’ha da sempre nel sangue.
«Non ero un virtuoso di piano o di canto – ammette – anche se fin da ragazzo ho suonato e cantato nel coro scolastico: ma ero molto musicale. Però, come fare a dire ai miei – che non erano affatto ricchi -: voglio studiare musica, con i miei problemi di salute, per cui ho subito ben due interventi che mi hanno per fortuna impedito di stare in carrozzella? Così ho studiato medicina, spinto dalla gratitudine, e pure per desiderio di mia madre: ma non ero convinto che fosse la mia strada».
Jeffrey studia a Cambridge dove riceve una formazione globale di medicina, musica e arte: la musica però lo prende, è coinvolto nella vita artistica londinese dove degli amici gli dicono: «Tu non sei fatto per la medicina, tenta un’audizione per una borsa di studio adesso che sei giovane, per non pentirti in seguito». Jeffrey la riceve e, dopo aver lavorato come medico in un ospedale, lascia la medicina e diventa per sei anni maestro ripetitore al Covent Garden di Londra. In quegli anni collabora con grandi come Solti, Pritchard, Davis, Kleiber e Karajan.
«Nel ’78 un amico, sovrintendente del teatro svedese di Göteborg, mi propose di dirigere Carmen. Gli ho risposto: ma scherzi? Così, senza pensarci troppo, son salito sul podio: dopo la prima prova l’orchestra era contenta. È andata in questo modo».
Ora, da oltre vent’anni Tate dirige le massime compagini del mondo. «Beh – sorride – adesso penso di poter dire che la direzione era veramente la mia strada. Ma io sono diverso dagli altri direttori: faccio solo le cose che mi piacciono, quello che non sento mio non lo dirigo, eseguo un pezzo soltanto se mi dice qualcosa, mi parla. Per esempio, io fatico con lo stile italiano – non è nel mio repertorio – e non lo faccio: certo, potrei battere il tempo lo stesso, ma non sarei più un vero direttore d’orchestra».
Onesto, Tate. Ma non avrà anche lui un compositore prediletto? «Forse ultimamente Mozart. Potrei dire anche Wagner, ma ci sono momenti in cui lui non mi va, mentre Mozart mi piace sempre. Però è difficile dire l’autore preferito, dipende dai momenti. Certo adoro Britten (si entusiasma, ndr): è fantastico, riesce ad avere una enorme scala espressiva con mezzi semplicissimi, una persona completa, direttore e compositore».
Ma uno, quando sta sul podio, cosa prova? «Dipende dalle serate. A volte cose orribili, quando va benissimo – raro – mi sento modellare come un vaso di ceramica, che nasce pian piano. Credo infatti che la direzione stia nel cuore quando si studia un brano, ma poi quando si dirige dev’essere guidata, modellata, dal cervello».
Tate, grazie agli studi e alla personale esperienza, conosce il dolore. «È un elemento importante in musica – afferma – come la gioia. Ad esempio, Mahler per me è un grande problema: il suo dolore è troppo evidente, e io penso invece che l’arte deve trasformare tutto, non mostrarlo, cambiare il dolore in gioia, in luce. La musica è una lingua astratta, un po’ come la pittura del Novecento, più che realistica. Penso a compositori astratti come Bruckner, Bach: la loro musica è astrazione, dissoluzione dalle cose terrene, più di un Mozart. Un fatto mistico? Io non so cosa sia esattamente il misticismo, comunque certo la musica è mistica».
Tate si accalora mentre si conversa ed è un piacere dialogare con un uomo fine, colto, e profondo come lui. Ora, l’attendono 5 anni come direttore musicale del Teatro San Carlo di Napoli. Una proposta inattesa – ammette – dopo la morte di Gary Bertini. «Ho esitato ad accettare: il mio repertorio è più tedesco, francese, contemporaneo che italiano. Ma, dirigendo la Valkiria, avevo trovato un’orchestra in crescita, un pubblico preparato e affettuoso, un sovrintendente come Lanza Tomasi di fiducia: ho accettato, perché credo sarà un’avventura molto interessante in una città che mi piace. Del resto ci sono sempre stati legami fra Napoli e l’Inghilterra».
Frattanto, a Roma, come ogni anno, all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha diretto con slancio Mozart (Sinfonia n. 36), Henze (Sinfonia n.1) e un luminoso Britten (Serenata per tenore corno e archi), dimostrando la vitalità e l’energia di uno che ama, nella vita e nell’arte, il lato più luminoso.