Addio Dori. Nuova stella in cielo

La mattina del 26 dicembre Doriana Zamboni, del primo gruppo con Chiara Lubich, ha raggiunto la casa del Padre. Le esequie lunedì 28 dicembre ore 10.30 presso il Centro Mariapoli di Castel Gandolfo. Riproponiamo un'intervista pubblicata nel 2011 sulla nostra rivista, di cui proprio Dori è stata una tra i pionieri e tra le prime firme. Qui brevi note sulla sua vita
Doriana Zamboni

L’età e i malanni hanno potuto velare il timbro della sua voce, ma la limpidezza dello sguardo e il sorriso sono quelli di sempre. Dori, tra le compagne e collaboratrici di Chiara della prima ora, mi accoglie nella casa dei Castelli Romani dove vive insieme ad altre delle prime focolarine. Anche stavolta apre per me lo scrigno dei ricordi: e sono fatti a me noti ma anche no, che nel suo racconto balzano vivi come fossero accaduti ieri. Riguardano gli anni trascorsi in Francia e Inghilterra a diffondere l’ideale dell’unità, come pure la lunga collaborazione al nostro periodico. Ma l’argomento principale è l’esperienza di vita accanto alla fondatrice dei Focolari, che fa di Dori una testimone privilegiata.

 

Cosa è stata Chiara per te?

«È stata una maestra. Non solo perché mi ha insegnato a studiare dandomi ripetizioni per colmare le mie insufficienze in certe materie, ma perché mi ha insegnato a vivere, a sapere come comportarmi davanti alle prove della vita e in qualsiasi situazione.

«Mi ricordo che, agli inizi, ai miei genitori l’ideale che volevo seguire sembrava tutta una montatura, uno spiritualismo fuori posto. Si è fatta avanti allora una poetessa che simpatizzava per il nascente movimento e con la quale mi ero un po’ sfogata, per spiegare loro come invece si trattasse di una cosa buona. Senza grandi risultati, a dire il vero. Solo che dopo, non so perché, ho cominciato a sentirmi così a disagio, così angosciata, che sono andata subito a raccontarlo a Chiara. Vedendomi in lacrime e completamente disorientata, mi ha detto: “Sai perché soffri così? Perché hai cercato la soluzione ai tuoi problemi in una persona particolare. Solo mettendo tutto in comune, amandoci e attirando la grazia di avere Gesù fra noi riusciamo veramente a capire come risolvere certe cose”.

«E anche in seguito, quando mi vedeva annaspare sotto una prova fisica o spirituale, mi ripeteva lo stesso invito a fidarmi dell’unità, andando avanti insieme. Ogni volta che un’ombra oscurava la mia vita, per me era spontaneo riferirmi a lei come alla mia vera mamma per poter “vedere” di nuovo».

 

Quando hai intuito per la prima volta che Chiara era anche una creatura cui Dio aveva assegnato un compito per la Chiesa?

«Chi mi ha svelato la grandezza spirituale di Chiara e la potenza dell’ideale che portava è stato Igino Giordani, che noi chiamavamo familiarmente Foco, col suo contegno non solo di ammirazione ma, direi, di venerazione. C’è una mia letterina dell’aprile 1949 in cui gli esprimo la mia riconoscenza per questa scoperta, e che ricordo quasi a memoria. Dice fra l’altro così: “È stato come fossi una bimba piccina in braccio a sua madre… Quando tu sei venuto, mi togliesti dal suo braccio e mi mettesti per terra dicendomi: “Guarda com’è grande tua madre!”. Mi hai rivelato qualcosa di cui istintivamente ero a conoscenza, ma la tua presenza me l’ha fatto capire in tutta la sua ampiezza”».

 

Chiara formava le prime focolarine ad una ad una. In che modo?

«Era il periodo subito dopo la guerra. Ricordo che lei approfittava anche di qualche giornata di ritiro spirituale, quando si andava fuori Trento, per esempio sul Cimirlo, per questo “cesello” sulle anime. Io non ero entrata ancora stabilmente nella casetta che chiamavamo “focolare”, come pure altre tra noi. E allora tutte, a turno, facevamo un colloquio privato con Chiara, che stava seduta ai piedi di un albero, e noi accanto. Lei s’informava di come avevamo vissuto la Parola di Dio, del nostro rapporto con Gesù, delle nostre prove, piccole certamente, proporzionate alla nostra età spirituale. E dopo averci ascoltate, dava ad ognuna una risposta e un consiglio ad hoc».

 

La Parola, dunque, è stata la grande passione di Chiara?

«Ti racconto in proposito un episodio poco noto. Nel 1943 si andava insieme, dapprima solo noi due, poi anche con altre, alla chiesetta di Santa Chiara, a Trento, per la messa delle 7. A differenza di noi, che seguivamo la funzione sul messalino, gli altri fedeli ne erano sprovvisti. Così un giorno abbiamo cominciato a copiare su un foglietto il Vangelo del giorno e con la carta carbone ne facevamo più copie da distribuire alla gente alla fine della messa. Poi Chiara ha scritto una lettera infuocata sulla necessità di testimoniare il Vangelo, lettera diffusa da ognuna di noi nella zona affidata (ci eravamo suddivise la città in cinque parti)».

 

A proposito, com’è nato il commento di Chiara ad una frase della Scrittura che tuttora viene diffuso ad ogni latitudine?

«In occasione di un pellegrinaggio ad Assisi col Terz’ordine francescano, il vescovo del posto, che era originario di Trento, aveva chiesto a Chiara di spiegare ai seminaristi una frase del Vangelo a sua scelta. Quel commento era piaciuto, e Chiara era stata invitata a metterlo per iscritto e a diffonderlo in copie ciclostilate con l’approvazione di quel vescovo. È nata così quella che abbiamo subito chiamato “Parola di vita”: ogni sera ci incontravamo per comunicarci come l’avevamo vissuta, le difficoltà e i frutti che aveva portato. In seguito questi commenti periodici alla Parola, approvati anche dall’arcivescovo di Trento, venivano distribuiti anzitutto ai nostri della comunità, e via via a quanti venivano in contatto con noi».

 

Questo bisogno di avere la garanzia della Chiesa è stato un tratto sempre costante di Chiara?

«Sì. Mi ricordo che quando ancora non eravamo approvati come movimento, Chiara non faceva stampare niente di quanto scriveva se prima non era stato rivisto da un sacerdote. Più tardi (abitavamo ormai a Roma, in piazza Palombara Sabina) mi ha fatto leggere una meditazione mirabilmente profonda, perfetta. Don F. però ha eliminato due o tre espressioni. Non riuscendo a distaccarmi dalla mia copia, me la sono messa in tasca. Senonché dopo un po’ Chiara mi ha richiesto l’originale. “Ma Chiara, non posso proprio sopportare che tu debba esser potata così”. “Ma non sai – ha risposto – che ogni potatura porta nuove gemme? Non l’hai ancora imparato?”».

 

A proposito di Roma, cosa ricordi dei primi viaggi da Trento alla capitale?

«Tra i tanti, ecco un fatterello capitato nel ’48 a N., la prima volta che è venuta con noi a Roma. Giunta nella stazione Termini, è rimasta così impressionata dai tanti treni e binari (a Trento ce n’erano solo due) che non faceva che ripetere: “Quante rotaie, quante rotaie”. E Chiara, cui premeva solo l’unità chiesta da Cristo al Padre: “Ma che t’importa? Veniamo a Roma a portare il nostro ideale e tu stai a guardare le rotaie?”».

 

E del periodo in cui il movimento era sotto studio da parte della Chiesa?

«Nell’inverno ’51, noi focolarine trascorrevamo con Chiara alcuni giorni di riposo in un paesino di montagna vicino a Trento, quasi schiacciate da una notizia: sembrava infatti che l’autorità ecclesiastica volesse togliere Chiara a guida del movimento. Desolate, chiedevamo a lei: “Cosa ti succederà? Come minimo ti manderanno in un convento, com’è successo a Bernadette di Lourdes. Ma se ci vai tu, veniamo anche noi”. “No – rispondeva lei –, perché ci metterebbero chi in un posto e chi in un altro. E poi, i focolarini dove andrebbero a finire? Ma noi siamo una cosa sola, siamo uno! Non è possibile separarci”».

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