Addio don!

Don Gallo, “prete scomodo”, è morto a 84 anni, nella sua comunità di San Benedetto al Porto. Ha aperto le porte del suo cuore a tutti, cercando di condurre la Chiesa alle periferie più abbandonate dell’umanità
Don Andrea Gallo

«Un prete che si è scoperto uomo». Titola così la cronistoria di don Andrea Gallo, il prete genovese, da sempre di frontiera. Don Gallo col sigaro sempre in bocca, col cappello sempre in testa e anche con la parlata “popolare” sempre pronta. Don Gallo il prete da marciapiede, delle prostitute, dei tossici, dei viados, dei gay. Un pastore, per dirla alla papa Francesco, che aveva "l'odore delle pecore". Perché è sempre vissuto per e con quel campionario di umanità che spinge la società perbene, quando l’incontra, a voltare la faccia dall’altra parte. Mentre don Gallo li guardava fissi negli occhi. Per lui questi rappresentavano uno dei tanti volti del Cristo. Uno dei tanti volti, quello di questi uomini e di queste donne, che «ci precederanno nel regno dei cieli».

Nato a Genova il 18 Luglio 1928, fin dall'adolescenza ha don Bosco come modello. Attratto dalla vita salesiana, inizia il noviziato nel 1948 a Varazze, proseguendo poi a Roma il liceo e gli studi filosofici. Poi in Brasile, a San Paulo, studia teologia: la dittatura che vigeva in quegli anni, lo costringe, in un clima per lui insopportabile, a ritornare in Italia l'anno dopo. A Ivrea viene ordinato sacerdote il 1° luglio 1959. Nel '64 decide di lasciare la congregazione salesiana chiedendo di entrare nella diocesi genovese. Sono gli anni del cardinale Siri, al quale arrivano lamentele di certi cristiani che lo accusano per il suo agire quantomeno irritante, perché i suoi contenuti «non erano religiosi ma politici, non cristiani ma comunisti».

Ma lui fin da subito ha ben chiara un’idea, e mi perdonerà ora il don, se oso dire che quell’idea era l’unica forse che gli è restata chiara per tutta la sua vita. Una sola, questa: che ogni persona che lui ha incontrato era figlio di Dio. E a questi tanti figli di Dio che ha trovato sui marciapiedi percorsi dai suoi passi ha dato dignità, li ha accolti, trascinati, strappati dal brutto della vita per aprirgli almeno un piccolo spiraglio di luce, di speranza. Gli ha fatto vedere il bello, li ha amati così com’erano senza pretendere che cambiassero, che diventassero come lui avrebbe voluto. Perché questo, don Andrea non l’ha mai preteso da nessuno.

A San Benedetto del Porto, di fronte al mare di Genova, tra la sopraelevata e il Palazzone della Stazione Marittima, nella Comunità che ha fondato, si offre dignità, sprazzi di luce e di speranza. E qui ora sono tantissime le testimonianze che sono raccolte su questo prete. Riportiamo alcune delle più espressive. «Don Andrea per me è stato una fortuna. È stato uno che davvero ha vissuto per gli altri. E gli altri erano la sua vita. Un grande – scrive Gino Paoli –. Girare per i vicoli con lui era uno spasso. Non c’era una prostituta, un trans o un drogato che non lo conoscesse e, a suo modo, non lo adorasse».

Per don Ciotti, invece, don Gallo «ha incarnato la Chiesa che non dimentica la dottrina, ma non permette che diventi più importante dell’attenzione per gli indifesi, per i fragili, per i dimenticati. Il suo dare un nome alle persone nelle strade, nelle carceri, nei luoghi dei bisogni e della fatica, è andato di pari passo con un chiamare per nome le cose. Andrea – continua don Ciotti – non è mai stato reticente, diplomatico, opportunista. Non ha mai mancato di denunciare che la povertà e l’emarginazione non sono fatalità, ma il prodotto di precise scelte politiche ed economiche. Ha sempre voluto saldare il Cielo e la Terra, la sfera spirituale con l’impegno civile, la solidarietà e i diritti, il messaggio del Vangelo con le pagine della Costituzione. Le sue parole pungenti, a volte sferzanti, nascevano da un grande desiderio di giustizia, da un grande amore per le persone».

Per il ministro per l’Integrazione Cecile Kyenge, don Andrea era una voce indipendente e preziosa, un uomo che con il suo operato ha sempre messo al centro le persone, insegnando con azioni dirette che non esistono emarginati o ultimi, ma che la nostra società deve fondarsi sul coraggio delle parole e sull’ascolto reciproco: una tensione verso l’altro che deve essere tradotta in atti di concreta vicinanza». «Ringrazio Don Gallo per aver sempre accolto gli ultimi nella sua comunità e per aver aperto le porte della sua chiesa alla comunità transgender, dimostrando che una chiesa inclusiva e amorevole verso tutti i figli di Dio è possibile», ha detto Vladimir Luxuria.

Don Gallo ha sofferto crediamo, pur restandovi sempre fedele, per la Chiesa-struttura, che lui reputava borghese e ricca, troppo distante dall’uomo. Raccontava che con l’arrivo di papa Francesco tornava a sperare in una Chiesa dei poveri, e si domandava «quanto i cattolici sapranno accogliere l’invito inequivocabile e sofferto a un rinnovamento radicale per ritornare a essere popolo di Dio in cammino per annunciare il Vangelo di liberazione per tutti. I primi segnali, diceva, sono di rottura con il passato e con un’idea di Chiesa arroccata e chiusa in sé stessa. Le questioni che il nuovo papa dovrà affrontare sono tante e gravi». E indicava quattro parole chiave per quello che dovrà essere «il cammino di Francesco»: «La prima parola è “partecipazione attiva”… La seconda parola è “sinodalità”. Mi auguro che la Chiesa diventi un cantiere aperto. La terza parola è “ascolto”: dei precetti, da assimilare, proclamare, studiare, approfondire. La quarta è “dialogo”».

Al di là di quelle che un alto prelato ha definito «intemperanze ed esagerazioni da generosità», va riconosciuto a don Gallo di avere aperto le porte del suo cuore a tutti e di aver cercato di condurre la Chiesa alle periferie più abbandonate dell’umanità.

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