Addio di un cantante d’opera

Un addio alla grande. Mediatico. Come lui era da molti anni, da quando aveva contaminato la lirica con il pop e la musica leggera, dopo i Concertoni con i colleghi Domingo e Carreras. Al funerale nella cattedrale di Modena, il 9 settembre, c’erano infatti più i vip politici o del Pop che i colleghi della lirica. Segno che il suo ruolo di traghettatore del Belcanto nazionale alle folle, per quanto applaudito in tutto il mondo per aver fatto scendere l’arte della romanza – come il celeberrimo Nessun dorma – al livello il più popolare possibile, non aveva certo suscitato entusiasmi fra gli addetti ai lavori. Qualcuno anzi, subito dopo la morte, con scarso tatto, aveva elencato le imperizie tecniche – reali – del grande tenore. Che tuttavia, da un critico severo come Rodolfo Celletti, nel 1975 era stato definito come la più completa voce di tenore lirico del nostro tempo. Forse Luciano, alla fine di una vita fortunata, dove aveva avuto tutto e molto dato – nel canto, nella solidarietà con chi soffre, ai giovani allievi – non aveva dimenticato le origini di figlio di un panettiere, che da maestro e assicuratore diventa star della lirica, già poco dopo il debutto in provincia nel 1961 con una Bohème, grazie alle doti naturali e alle amicizie giuste. Luciano aveva spopolato nei maggiori teatri del mondo, dagli Usa al Giappone all’Europa, scegliendo un repertorio adatto alla luminosità di un voce dal timbro solare e melodioso, dalla facilità di scansione della parola, dai suoni ora vellutati ora entusiasti, dandosi con la massima generosità – anche verso i colleghi – sul palcoscenico. Una voce unica, una facilità comunicativa immediata, una furbizia tutta emiliana, erano destinati a fare di Pavarotti una star supernazionale. La lirica ad un certo punto gli era andata stretta, ed il successo mediatico egli l’aveva afferrato a piene mani, inventandosi i Concertoni, i duetti con le star del pop o del rock nei concerti dei Pavarotti and friends, le attività benefiche, i contatti con i grandi della terra. Sempre umanissimo, con gli anni forse un po’ sopra le righe con i capelli tinti, il frack extralarge, il fazzolettone. Sempre più personaggio. Ma la gente lo ha amato, dappertutto. I 50 mila al funerale, i milioni collegati via etere ne sono i l segno. E non c’è dubbio che l’Italietta nostrana del cattivo gusto, degli pseudoartisti e dei tanti mediatici maestri del nulla, abbia recuperato una immagine di solarità e di vita attraverso i l canto di Pavarotti, anno dopo anno. L’Italia non era solo pizza e mafia. Era Pavarotti. Il che non è poco. Giusto quindi che la gente e i dirigenti politici (si spera sinceramente) l’abbiano ringraziato. Pure, dopo tanto clamore, il silenzio scende anche sul supertenore che lascia il vuoto nei molti che lo hanno amato, le sue due famiglie comprese. Ma, egli ha voluto essere ricordato come un cantante d’opera. Al di là del personaggio di Big Luciano, rimane il grande tenore. Dio mi ha dato il dono della voce , ha confessato più volte. Questa voce così italiana, fresca e giovane, ha cantato – soprattutto negli anni d’oro, dal Sessanta all’Ottanta – i sentimenti più autentici del cuore umano, quelli in cui ognuno si riconosce, sia esperto o no di musica. È stato, forse, il segreto del successo. Per questo la lirica è uscita, grazie a lui, dai teatri verso la gente.Ma non è questo forse il ruolo di un cantante d’opera? Luciano l’ha saputo fare. Per questo, rimarrà.

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