Addio Baggio di sole

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Ha illuminato col suo talento vent’anni di storia del football. Anche chi non ama il calcio, consideri, per favore, il valore della sua vicenda: Baggio è stato un interprete pressoché perfetto di questo sport, per qualità artistica, efficacia, leadership. Un capo mite, ma un match-winner nato: fra i rari campioni capaci di caricarsi la squadra sulle spalle e risolvere la gara. Uscendo dal terreno di Marassi, addosso l’ultima maglia azzurra e la prima fascia da capitano, cullato da interminabile ovazione, ha sussurrato: Grazie, Trap. Grazie, Divin Codino, per averci fatto sognare gli fa eco in queste settimane l’affetto dell’Italia del football. Perché Baggio è stato estro raffinato, un omaggio all’estetica ed alla bellezza del gesto atletico, un campione rattoppato di cicatrici, un calciatore scomodo, specie per i suoi allenatori, un lussuoso vagabondo di infinite squadre, cento volte finito e cento volte rinato, tradito dalla maglia azzurra, mai dai tifosi. L’abusato Voglio essere soltanto me stesso suona nel suo caso quale manifesto credibile ed ammirevole: nel labirinto degli schemi più cervellotici, nella ressa dell’atletismo sempre più esasperato, ha continuato a credere che il talento bastasse comunque. Risbucando, quale coniglio bagnato come l’appellava l’Avvocato Agnelli, palla al piede, da muri di gambe, da pressing soffocanti, da prognosi azzoppanti: ogni volta cogliendovi un varco, passandovi la palla o entrandovi lui stesso. Se ne va a testa alta un genio anomalo, Zola lo incalza, e scomodo come pochi: perseguitato dagli allenatori, o invidiosi della sua popolarità, o a disagio nel gestirlo, o seccati che il suo talento mettesse un po’ in ridicolo le loro tesi su schemi e collettivo. Vittima paradossalmente del proprio genio pedatorio, di quel ostinato cercare e, delizia agli occhi, trovare soluzione al problema di gioco con un imprevedibile doppio dribbling stretto, capace di far basculare la difesa o capitolare il portiere. Né il suo pallone d’oro nel ’93, ultimo italiano, meritato riconoscimento al miglior giocatore del mondo nei primi anni Novanta, fase in cui stillava gocce di sapienza calcistica, né la maturità sportiva hanno contribuito a renderlo meno timido e riservato. Difficile a volte capire se fosse silenzioso o protervo, sfuggente o snob, spirituale o altezzoso: di certo sempre è passato sopra la mischia, quasi sapesse che i conti, alla fine, li avrebbe fatti con se stesso e non con l’ambiente, né con le persone. Persino nella sua fede, quella buddhista, è uscito dal coro, lasciando sconcertati, non ce ne voglia, quando ad essa, ogni volta, riferiva la forza morale con cui zigzagava caparbio fra infortuni ed incomprensioni. Quella fede non l’ha solo reso forte e paziente nelle avversità: ha fatto germogliare in lui una profonda vita interiore. Dietro ai toni apparentemente ostili di frasi come: Sono uno di quelli – dei pochi, forse – che sente il bisogno di parlare soltanto quando ha qualcosa di molto importante da dire si nasconde un uomo schivo che nei giorni difficili ha saputo dedicare anche dieci ore alla meditazione ed alla preghiera per ricucire l’equilibrio fra il corpo e la mente. Una fede che gli ha fatto scrivere: Come dicono i padri del deserto e i maestri zen è solo nella solitudine che è possibile riscoprire il paradiso. Quella solitudine che richiede il distacco completo dell’io, dove ti devi svuotare dal sé. E essere svuotati è amare. L’atto d’amore più grande che un cristiano può conoscere, la chenosi, l’amore che si svuota di sé, è quello, assoluto, del Cristo crocifisso, la compassione infinita. È facile intuire come anche questa sua ricercata interiorità l’abbia reso poco comprensibile in un mondo esclusivamente muscolare. Del borgo di Caldogno, piccolo tempio di concretezza, trasformatosi da centro agricolo a oasi di operatività artigianale ed industriale, non ha conservato solo il ricordo delle pallonate nei sette metri del corridoio di casa, il gabinetto in fondo ad indicare la porta, ma anche la poesia di Fogazzaro che qui veniva ad alimentare il verismo di Piccolo mondo antico. Che altro ci ha donato, se non poesia, con quel suo accarezzare la palla, smorzarla, placarla, farla schizzare nelle direzioni più impensate, facendole eseguire stupendi arabeschi e ghirigori o voli di quaranta metri capaci di tagliare fuori una intera squadra? Eppure sua destrezza reale, Roberto Baggio, ha ricevuto arti fragili in dote al servizio del suo genio creativo: a meno di un’ecatombe generale non andrà in Portogallo agli europei, torneo mai giocato, a difendere i colori azzurri. Non è in grado di disputare una partita ogni tre giorni: prima ancora che i capelli brizzolati, la figura un po’ intozzata, la corsa offuscata, non glielo consentirebbe il suo ginocchio martoriato fin dall’età di 18 anni, quando subì il primo grave infortunio, due giorni dopo che per lui, ragazzino fenomeno, la Fiorentina aveva speso quasi tre miliardi, salvo tenerlo poi in infermeria per quasi due anni. Ho giocato tutta la mia carriera – confessa nella sua autobiografia – con una gamba e mezzo. Migliaia di ore per tener viva una gamba che si rimpicciolirebbe di giorno in giorno. L’ho giocata senza mai stare bene del tutto. Se giocassi solo quando mi sento al cento per cento giocherei tre partite l’anno. L’ho giocata con la speranza, assurda per un giocatore di talento, di trovare terreni un po’ fangosi, così che quel ginocchio destro soffrisse di meno, potesse appoggiarsi su una superficie più morbida . Pensate se avesse giocato con due.

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