Ada e il Guardaroba solidale di abiti da sposa

Da qualche anno, a Bari, presso il Centro di Ascolto per le famiglie di Japigia, gestito dalla Fondazione Giovanni Paolo II Onlus, è attivo un servizio originale    

È difficile raccontare come nascano certe storie, scioglierne la matassa, scoprirne l’origine e poi, riavvolgere il filo, sperando di ricordare bene la direzione di ogni giro, trattenendo lo spago con delicatezza, quel tanto che basta a non romperlo.

Ada è una salentina che vive a Bari e lavora come educatrice presso il Centro di Ascolto per le famiglie di Japigia, gestito dalla Fondazione Giovanni Paolo II. Ada, che in realtà si chiama Addolorata, ha da sempre avuto una passione: «Adoravo fare i vestiti! Così, accanto agli studi universitari, ho seguito un percorso triennale per diventare insegnante di taglio e cucito. Ho lavorato anche come costumista teatrale a livello amatoriale e, ad un certo punto, queste esperienze si sono fuse con il mio lavoro di educatrice».

Ago e filo diventano per Ada il mezzo privilegiato per entrare nel mondo delle famiglie di Japigia: «Il cucito mi ha permesso prima di tutto di avvicinare le donne, di accoglierne il vissuto, di creare un ambiente di condivisione ma anche di insegnare loro un mestiere che potesse essere spendibile per le esigenze familiari, inserendosi nel mondo del lavoro».

spose-2Sono tante le donne che nel tempo hanno considerato quest’attività come momento di svolta per sé, sia lavorativo, con il recupero di un’attività manuale come la sartoria, sia sul piano della  consapevolezza. Racconta ancora Ada: «Occupandomi delle attività aggregative e pre-professionalizzanti, ho avuto modo di confrontarmi e di operare con diversi gruppi di donne di età ed estrazione sociale diversa, dove si scopre che la solidarietà è l’elemento fondante del nostro stare insieme, che ci permette di stringere rapporti più profondi nell’ascolto delle esigenze altrui».

È da questo bacino di condivisione, che ripropone le relazioni tra donne come elemento fondante delle relazioni sociali, che nasce il Gardaroba Solidale di Abiti da Sposa, Cerimonia e Comunione.

«In questo ambiente solidale arrivavano donne per la ginnastica, la sartoria… Un giorno, semplicemente parlando, qualcuna di loro ha detto: “Io ho un abito da sposa chiuso in armadio, qualcuno che ne ha bisogno?”».

“Perché no”, le è stato subito risposto. Così, al centro di ascolto cominciano ad arrivare i primi abiti da sposa e di comunione, che tante donne affidano a Ada e alle sue colleghe perché “possano farne buon uso”.

«Un po’ alla volta ho scoperto che dietro questi abiti e il gesto del donare c’erano delle storie a volte tristi, a volte gioiose: una malattia, un lutto, una separazione ma anche il ricordo di un giorno felice e l’augurio per qualcun altro di altrettanta felicità. C’era l’idea di rimetterli in circolo, a disposizione dei più bisognosi».

spose-3Il passaparola e, soprattutto, l’interesse di media e tv innescano un processo di generosità diffusa e, dopo il primo nucleo di abiti da sposa, ne arrivano altri, anche da cerimonia e comunione, questa volta donati da negozi e da privati non direttamente collegati con il Centro.«La notizia del progetto è arrivata persino in America! Un giorno, mi chiama un papà che mi dice di voler donare l’abito da sposa mai indossato dalla figlia. Tornato in Italia, mi contattata e mi racconta che la ragazza, che vive in America, avrebbe voluto sposarsi in Italia, ma alla fine, il matrimonio, in forma semplice, si era svolto solo oltreoceano, perché nel frattempo la mamma, ammalata di tumore, era venuta a mancare solo alcune settimane prima della data prevista per le nozze. L’abito era rimasto nell’armadio per 7 anni, fino a quando non era stato preso e consegnato nelle mie mani!»

Ora, l’atelier di abiti da sposa del Centro di Ascolto di Japigia conta più di 50 abiti, alcuni dei quali molto antichi e di pizzo prezioso, catalogati per taglie. «Abbiamo dato in prestito diversi abiti, sia da sposa che da comunione. Si rivolgono a noi sia persone in difficoltà economica che altre che fanno una scelta etica e preferiscono prendere in prestito un abito già indossato, nuovo o vintage, e magari fare una donazione per il nostro progetto. È successo, per esempio, che qualcuno ha donato delle macchine per cucire che ora usiamo nella sartoria, per continuare i corsi e implementare i nostri laboratori che sono sempre in movimento».

Sì, perché i laboratori di sartoria sono diventati attività pre-professionalizzanti anche per ragazzi migranti che già nel loro paese avevano imparato questo mestiere con uno stile e un linguaggio non europeo… ma, è proprio il caso di dirlo, questa è un’altra storia.

 

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