Accolti nel cuore di Dio

Ancora una volta mi soffermo sulla realtà della fede, riallacciandomi a quanto condiviso nei precedenti appuntamenti della nostra rubrica.
Un gruppo di persone

Ancora una volta mi soffermo sulla realtà della fede, riallacciandomi a quanto condiviso nei precedenti appuntamenti della nostra rubrica. Com’è andata avanti, in tutti questi anni, la mia esperienza in proposito? Non è stata ferma. È cresciuta, si è arricchita, ha attraversato purificazioni e potature, come dice Gesù nel Vangelo, periodi anche di lotta e di buio. Ma proprio così si sono dischiusi orizzonti nuovi e impensati.

Innanzi tutto, ho percepito sempre più la straordinaria bellezza e forza della fede come fedeltà gelosa di Dio e come affidamento disarmato a lui. Fedeltà di Dio, in primo luogo. Sì, la fede non è atto primo, ma secondo. È riposta, corrispondenza: all’amore di Dio per me. Io posso e voglio credere al suo amore, perché lui per primo mi ama e crede in me. La fede, di qui, l’ho sperimentata come l’affidarsi completo, responsabile e creativo a Dio. Come Gesù: «Non quello che io voglio, ma quello che tu vuoi».

Essa, in fin dei conti, non è soltanto vivere di fronte a Dio e orientati verso di lui. Ma vivere in Dio. Perché, seguendo Gesù, si “muore” e si “nasce” a vita nuova con lui. Così che lo Spirito Santo grida dal fondo del nostro cuore: «Abbà, Padre». La fede, in altre parole, ci installa nel cuore della Trinità, e cioè nel ritmo di vita dischiuso dal dono di sé che il Figlio nel soffio dello Spirito vive verso il Padre, in risposta all’amore che, nello stesso Spirito, il Padre vive verso il Figlio.
È meraviglioso! Accolti nel cuore di Dio, ci si ritrova nel cuore del mondo. Calati là dove Gesù s’è calato: negli abissi anche più bui e oscuri della storia del mondo. Per illuminarli della sua Luce.
 
Un avvenimento di qualche anno fa me lo ha fatto toccare con mano. Avevo da poco ricevuto un incarico importante e delicato. Improvvisamente, una grave malattia mi blocca in ospedale. Superato il momento più difficile, nella preghiera comprendo una cosa semplicissima, ma per me sconvolgente. È come se – attraverso quell’evento – Dio mi dicesse: «Non voglio la tua capacità e il tuo lavoro: è te che voglio!». Ma certo, intuisco: ciò che debbo donare a Dio è il mio cuore, e cioè tutto ciò che sono ed ho, e non tanto quel che posso fare per lui.

Qualche tempo dopo, sempre nella preghiera, capisco che la fede dilata a sempre nuove profondità il rapporto con Dio. Dapprima, è mettere la propria vita a suo servizio, seguendo Gesù per annunciarlo e testimoniarlo. Poi, col tempo, diventa la possibilità concreta di offrire la propria vita perché Gesù la viva lui stesso, ne faccia cioè luogo e strumento – piccolo e inadeguato – della sua presenza. Lo dice l’apostolo Paolo: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me».

È allora che si comincia a sperimentare che cosa vuol dire amare Dio «con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutte le forze» e amare il prossimo «come sé stessi».

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