Accogliere, aprire porte, sfamare
La pioggia del mattino fa profumare gli aghi di pino marittimo che costeggiano l’edificio, rendendo gradevole questo pomeriggio di metà agosto. Si sta bene, rinfrescati e senza la troppa calura dei giorni passati. Nell’Episcopio sanremese, mons. Antonio Suetta, vescovo di Ventimiglia- San Remo, ci accoglie per raccontarci dal suo osservatorio privilegiato le vicende che hanno caratterizzato negli ultimi anni questo lembo di Chiesa di confine. E che l’hanno visto protagonista in più di una occasione.
Parliamo ovviamente dei migranti. L’argomento è scottante e non può non iniziare da lì la nostra conversazione. Di lui abbiamo le immagini che raccontano la sua presenza sugli scogli ai Balzi Rossi, al confine con la Francia. Vescovo, polizia e migranti che cercano accordi per ovviare a una situazione di disagio imprevisto ed evitare rivolte con conseguenze imprevedibili. Era l’estate del 2015.
Eccellenza, dai Balzi Rossi ad oggi cosa è cambiato? «Diciamo che i Balzi Rossi sono il primo capitolo di un libro che da allora è andato formandosi». A quale capitolo è giunto ora la stesura di questa storia? Il vescovo sorride e spiega che siamo al secondo o al terzo, non è chiaro. Quello che sa è che è una storia appassionante, coinvolgente. Una storia scritta con i fedeli della sua chiesa, coinvolti nelle mille iniziative di solidarietà che l’emergenza del momento sempre richiedeva, «e poi – afferma – se non sbaglio è uno tra i primi doveri dei cristiani: accogliere, aprire porte, sfamare».
Ma Monsignor Suetta è andato oltre, ha mediato con i “No Borders”, ha dato soldi per sfamare gli ultimi arrivati, ha lavorato di concerto con l’amministrazione pubblica, dal Comune alla Prefettura. «È stata la Provvidenza che ha “inventato” questo per la nostra Chiesa – afferma – e noi non ci siamo sottratti. Per questo è stato allestito il punto di accoglienza nella chiesa delle Gianchette per 440 giorni, là sono stati accolti i minori e soprattutto le donne. Abbiamo aperto il seminario di Bordighera ai richiedenti asilo e dato un appartamento a una famiglia di rifugiati».
Tutto questo, immagino, rientra nel primo capitolo di questa storia, ma ora dopo tre anni di “chiesa di frontiera” nel vero senso del termine, il vescovo ha affidato ad una lettera le riflessioni maturate finora, per metterle al servizio di un agire futuro. È una riflessione molto approfondita e ben argomentata, in risposta ai firmatari di un’altra missiva scritta da sacerdoti, vescovi, laici e teologi. In pratica, approfondisce in modo serio e secondo tanti aspetti il problema immigratorio.
«Ben consapevole del dovere cristiano e umano che deve caratterizzare il nostro agire di Chiesa – commenta -, dobbiamo fornire una lettura il più completa possibile del fenomeno migratorio. Ho scritto e detto più volte che gli stranieri che arrivano da noi sono tre volte vittime di una forte e gravissima ingiustizia.
«La prima ingiustizia – spiega monsignor Suetta – è la guerra, l’insicurezza e la povertà che vivono nel loro Paese e quanto subiscono per giungere in Italia. La seconda ingiustizia, denunciata dallo stesso magistero della Chiesa e ricordata dai vescovi africani, è quella che avviene quando delle persone sono private del diritto di poter crescere sulla propria terra, a causa di politiche neo-colonialiste di sfruttamento delle risorse naturali. La terza forma d’ingiustizia è la strumentalizzazione che le cupole finanziarie internazionali fanno dei migranti per un preciso disegno egemonico sul mondo occidentale».
Un pensiero a senso unico, che ha a che fare con la globalizzazione e che, continua il vescovo, «tende a lasciare i poveri a farsi la guerra e a cancellare i valori religiosi nelle nostre società, cristiani o musulmani che siano. Come dice papa Francesco: non è in atto una guerra di religione, ma una guerra contro la religione».
Monsignor Suetta ritorna a ribadire con fermezza che la prima responsabilità di noi italiani, di noi europei, è quella di «aiutarli a casa loro», e precisa: «attenzione però, liberandoli da tutte le ingerenze e da tutti i nostri interessi. E lavorare per promuovere le condizioni per una vera crescita umana di queste persone. Dobbiamo rispetto all’identità di quei popoli, come dei nostri, ma non possiamo tacere i nostri valori religiosi».
Ancora una volta il vescovo sottolinea che i cristiani non possono tacere: «Per me questa è principalmente una questione di fede. Noi cristiani dobbiamo annunciare loro Gesù Cristo. Se non lo facciamo si arriva presto a una deriva del dialogo interreligioso. A dire che tutte le religioni sono uguali. Questo sarebbe tradire la nostra come la loro religione».
Si sta bene con don Tonino, si ascolta volentieri quanto ci racconta. E di cose da raccontare ne ha davvero tante. Sa ascoltare e suggerire, precisare e correggere. E poi di tanto in tanto esplode in una battuta o in una risata che col suo fare sereno e gioviale crea immediatamente comunione. Lo salutiamo partendo certamente più arricchiti nei nostri pensieri grazie alla sua familiarità.