Accoglienza radioattiva

Gli angeli della porta accanto che incontriamo quando è grande lo sconforto... Una storia raccolta da Annamaria Gatti
Foto Pexels

Mi reco in clinica, dove devo sottopormi alla terapia, dopo un intervento chirurgico. Svolte le pratiche consuete, mi introducono in quello che, per alcuni giorni, sarà il mio piccolo rifugio. Sarò sola perché la cura crea una sorta di radioattività, che mi renderà inavvicinabile.

Entro quasi furtivamente nel complesso assegnatomi e mi stupisco: non è deserto come previsto. Saluto la giovane donna seduta in un angolo, che mi guarda con un cenno di scusa e mi spiega: «Sono qui solo per un momento. Sono di passaggio, in attesa di essere dimessa, ma le sto lontano, perché sono radioattiva». La osservo: il viso è pulito e solare, i capelli ricci sono raccolti alla rinfusa sulla nuca, la voce risuona piana e pacata e riflette lo sguardo intenso. Mi ricorda la maggiore delle mie figlie. Sorride, forse sollevata per la fine della clausura ospedaliera, anche se inizierà quella domestica. Colgo nel suo sorriso una certa complicità.

Rispondo anch’io al suo messaggio empatico, mentre mi guardo attorno: so che qui non potrò più relazionarmi facilmente con una persona per alcuni giorni. Potrò sorridere solo col pensiero e col cuore. Sono certo molto preoccupata e lei se ne accorge. «Qui sono molto gentili, vedrà, si troverà bene», mi consola, quasi ci trovassimo in un resort a cinque stelle, meta di una vacanza premio, forse per aver sopportato e affrontato l’idea che un tumore ti devasti corpo e anima.

«Guardi qui», prosegue sottovoce. E a piccoli cenni illustra dettagli, pulsanti e interruttori, accorgimenti per risolvere la questione isolamento, per poi addentrarsi, da preparata guida turistica, verso le consuetudini acquisite, che l’hanno accompagnata nei giorni di permanenza, fatti di terapie. Si scusa e si scansa per mantenere la distanza regolamentare da chi come me, peraltro, sarà presto radioattiva anche più di lei.

Tutto mi pare armonia in quei pochi istanti e mi chiedo come è possibile che un saluto possa essere caricato di tutta quella positività. Presto verrà chiamata e se ne andrà, ma prima di voltarmi le spalle mi sorride, mi guarda a lungo e piegando il capo come un uccellino mi chiede: «Lei è un’insegnante vero? L’ho capito subito, anch’io… noi insegnanti ci riconosciamo, anche negli ospedali. Mi chiamo Luisa». Mi sento capita e consolata e quelle fredde pareti mi paiono meno grigie.

Perché non l’ho abbracciata? Perché non le ho detto che è proprio una bella persona? L’accompagni il mio bene, ovunque sia.

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