Abu Mazen e la pace possibile
La vittoria di Mahmoud Abbas (Abu Mazen) alla elezioni presidenziali palestinesi dello scorso 9 gennaio rappresentano una buona notizia per il processo di pace israelo-palestinese. Raccogliendo quello che era giusto salvare dell’eredità politica di Yasser Arafat, Abu Mazen ha saputo coagulare attorno alla sua personalità il consenso (con il 62,3 per cento dei voti) delle diverse e spesso opposte fazioni palestinesi. Al contempo, Abu Mazen, facendosi perdonare qualche scivolone retorico da campagna elettorale, come l’espressione nemico sionista, ha inviato segnali distensivi e costruttivi, con il riconoscimento, ad esempio, che la violenza ed il terrorismo non hanno certo contribuito a far avanzare la causa palestinese. Ma non bisogna farsi illusioni. Il processo politico avviatosi con l’elezione di Abu Mazen sarà lungo ed accidentato. Compiti di notevole spessore attendono il nuovo leader. In primo luogo, egli dovrà riformare profondamente l’Autorità palestinese, caduta, in molte delle sue articolazioni, preda della corruzione o del familismo. Una delle priorità sarà quella di affermare il controllo civile sui molteplici corpi di sicurezza e paramilitari, comandati talvolta da veri e propri signori della guerra riottosi e detentori di un forte potere a livello locale. Il compito sembra più agevole nella striscia di Gaza, nonostante l’influenza nefasta di Hamas; si presenta impervio nei Territori occupati, dove operano gruppi autonomi o eterodiretti dai guerrigleri Hezbollah in Libano, a loro volta influenzati (finanziati) dall’Iran. Sul piano economico, la conferenza internazionale che si svolgerà a Londra ai primi di marzo do- vrebbe contribuire, da un lato, ad identificare – con l’aiuto della Banca mondiale – i bisogni palestinesi per avviare lo sviluppo, dall’altro creare nella regione le condizioni per un piano complessivo di rilancio economico e le sufficienti garanzie per gli investitori esteri di un ambiente economico favorevole. Israele, da parte sua, ha dato segni di gradimento di Abu Mazen, ma il nuovo governo di coalizione formato da Ariel Sharon non avrà vita facile. I gruppi tradizionalisti israeliani non vedono di buon occhio il piano di ritiro unilaterale dalla striscia di Gaza e ancor meno dalla Cisgiordania, e c’è da prevedere che i coloni si organizzeranno per resistere agli sfratti dagli insediamenti (molti dei quali illegali, benché permessi da Israele per troppo tempo). Segnali di insubordinazione già serpeggiano tra le fila dei militi israeliani che dovranno eseguire l’ordine di evacuazione dei loro compatrioti nelle colonie irregolari. Inoltre Sharon dovrà convincere il mondo che il suo piano di sgombero militare da Gaza non costituisce una mossa per togliere ogni contenuto alla Road Map ed in particolare rallentare e nella sostanza vanificare il ritiro anche dalla Cisgiordania (per dirla con uno slogan, prima Gaza, ma non solo Gaza). Sul piano internazionale, la diplomazia si è rimessa alacremente in cammino, dopo gli oltre dieci anni perduti dalla firma degli accordi di Oslo. Condoleezza Rice, nuovo segretario di stato americano, sembra aver compreso che l’avvio di una soluzione concordata del confronto israelo-palestinese rappresenta il modo più efficace di rilanciare la collaborazione con gli europei dopo lo strappo unilaterale degli Stati Uniti sull’Iraq. Al tempo stesso, i paesi vicini si sentono giudicati dalla comunità internazionale sul contributo che sapranno dare alla soluzione del contenzioso in Palestina: l’Egitto, vigilando alla chiusura dei tunnel che consentono infiltrazioni di terroristi a Gaza e adoperandosi per la stabilizzazione nella striscia; la Siria, ottemperando alle richieste della recente risoluzione 1559 delle Nazioni Unite per il ritiro dal Libano e soprattutto astenendosi dall’influenzare a proprio vantaggio le elezioni previste in tale paese nell’aprile prossimo al fine di perpetuare al potere il governo amico di Lahoud. Quanto allo scenario più ampio, gli Stati Uniti vedono in una soluzione del conflitto israelo-palestinese una carta strategica per riacquistare un minimo di credibilità nel mondo arabo, riparare le relazioni tra i due lati dell’Atlantico, aggiungere una Palestina democratica all’iniziativa per la liberalizzazione dei paesi islamici, pacificare un’area di tensioni che si somma oggi al pantano dell’Iraq e, in prospettiva, alla questione del programma nucleare iraniano. E l’Europa? Va ascritto a merito del Vecchio continente di aver mantenuto aperto da ormai un decennio un foro mediterraneo (il cosiddetto processo di Barcellona) ove, accanto ai membri dell’Unione, siedono, dialogano, progettano, collaborano con Israele i paesi arabi del Medio Oriente e del Nord Africa. Una sorta di palestra diplomatica (e non solo), che tornerà utilissima non appena il processo di pace avrà imboccato la strada giusta, l’unica realistica: due popoli, due stati, ugualmente liberi, ugualmente sicuri, ma soprattutto amici.