Aborto in Costituzione, libertà e diritto alla vita
Il 4 marzo scorso è stato modificato a larga maggioranza, dai due rami del Parlamento francese riuniti a Versailles, l’art. 34 della Costituzione, con l’inserimento della disposizione: «La legge determina le condizioni nelle quali si esercita la libertà garantita alla donna di ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza».
La notizia è rimbalzata nelle cronache giornalistiche come riconoscimento del “diritto d’aborto”, anche se più propriamente si tratta di una libertà che deve essere garantita con interventi da parte del legislatore volti a dettare le condizioni che offrano alla donna, che voglia interrompere la gravidanza, idonea garanzia.
In realtà, non vi era un vuoto normativo da colmare, in quanto il diritto della donna di ricorrere all’aborto era già previsto dall’ordinamento francese. Ma ciò che cambia con l’inserimento in Costituzione della corrispondente libertà d’aborto è che saranno sottoposte al vaglio costituzionale le leggi che un domani interverranno sulla materia, per verificarne il rispetto del principio costituzionale di libertà.
Da qui nuove domande rispetto ad altrettanti diritti: uno per tutti, l’obiezione di coscienza, che da sempre entra in questione nei temi di frontiera per la nostra umanità: per primi, aborto, eutanasia. Temi che per la loro natura investono la coscienza, a cui è stata assicurata e garantita libertà, da ultimo, anche nell’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Ma, alla luce della modifica introdotta nella Costituzione francese non si correrà il rischio che all’obiezione di coscienza venga eccepita la natura di “limite” all’autodeterminazione della donna nel ricorso all’aborto, oggetto di una libertà oggi costituzionalmente garantita?
Che la Francia sia il primo Paese ad inserire l’interruzione della gravidanza nella propria Carta costituzionale, per collocarla tra le garanzie fondamentali, non suscita un plauso unanime, anzi si rilegge la stessa come “pretesa” da poter far valere ad ogni costo.
Se, del resto, nessuno di noi nasce da solo, ma come frutto di un “incontro” dove un altro necessariamente concorre al concepimento, nel nuovo testo costituzionale francese si configura un “potere di scelta” che garantisce la donna nella sua personale decisione di interrompere la gravidanza con la totale estromissione di chi vi ha concorso.
Una libertà che rischia dunque di nascondere l’altra faccia della medaglia, che reca il nome “solitudine” e al contempo “deresponsabilizzazione”. Un orizzonte che esclude quel dovere minimo di solidarietà che nella nostra vita non solo personale, ma anche sociale e civile, diventa impegno in relazione ai diritti nella reciprocità dei doveri, e principio richiamato anche nell’ambito della stessa Dichiarazione Universale dei Diritti umani (art. 29).
È una vera “conquista” o non è piuttosto adombrata una “sconfitta” per la donna? Abortire significa in realtà affrontare traumi e sofferenze, portare ferite che nel proprio intimo si fanno prezzo di una libertà, che nell’aborto nasconde a monte il fallimento di una relazione o un mancato riconoscimento della propria dignità.
Di quest’ultima la “libertà” dovrebbe essere espressione, ma non come autonomia assoluta, piuttosto nella sua dimensione necessariamente relazionale e speculare rispetto alla libertà dell’altro, con il quale condividere analoga porzione di responsabilità a cui nessuno può sottrarsi.
Dinanzi alla decisione della donna, che mai sarà presa a cuor leggero, quale il contenuto della libertà che il legislatore francese è ora chiamato a garantire? Se pensiamo alla normativa italiana in materia di interruzione volontaria della gravidanza, la legge n. 194 del 1978 cerca di fissare confini e modellare requisiti per consentire di escludere la punibilità di una condotta abortiva. Come potrebbe la stessa condotta mutare il suo contenuto in un diritto, laddove per non essere punibile necessita di condizioni e limiti configurati dalla legge?
Non possiamo ignorare che al cuore della vicenda interruttiva della gravidanza si colloca inevitabilmente un altro diritto, riconosciuto e tutelato anche a livello internazionale: è il diritto alla vita, premessa e fondamento di ogni altro diritto, “fonte originaria” della stessa libertà.
La sua enunciazione è oggetto dell’art. 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti umani (1948), dell’art. 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), e – unitamente alla dignità umana – degli artt. 1 e 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
È difficile dunque oggi estromettere questo orizzonte, difficile negare l’indisponibilità della vita umana, ancor più dinanzi a un cammino che nella scienza ha dato particolare evidenza a tutte le fasi di sviluppo dell’embrione umano, così nella ricerca come nelle stesse tecniche di procreazione medicalmente assistita.
Si tratta dell’essere umano più piccolo e più fragile, colui che non ha voce, invisibile alla percezione immediata, e la cui tutela è nelle mani di chi sa accoglierlo non come un che cosa, ma come un “chi” che si affaccia nella sua umanità unica e irripetibile.
La stessa Corte Europea dei diritti dell’uomo nella sentenza del 27 agosto 2015 escludeva la possibilità di ridurre gli embrioni a “possessions”, ovvero oggetti/cose su cui far valere, secondo la pretesa della ricorrente, il diritto al rispetto della proprietà privata (così nel Ricorso n. 46470/11).
E non mancano di certo elementi normativi, riportati nella sentenza, da cui attingere conferme: la Convenzione del Consiglio d’Europa sui diritti dell’uomo e la biomedicina (“Convenzione di Oviedo” – 4 aprile 1997) all’art. 2 afferma il primato dell’essere umano.
Lo stesso Centro europeo per il diritto e la giustizia (“ECLJ”) deduceva che gli embrioni non possono essere considerate “cose”.
E nell’ambito delle “opinioni” allegate alla sentenza, anche quelle in accordo con la stessa, non viene taciuto il richiamo alle norme del Consiglio d’Europa, che già nella Raccomandazione 1046 (1986) aveva ritenuto che l’embrione e il feto umano debbano in ogni circostanza beneficiare del rispetto dovuto alla dignità umana. Si cita la Risoluzione 1352 (2003) dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa per sottolineare il “diritto alla vita di tutti gli esseri umani”.
Vi è però un punto di partenza, dal quale l’Assemblea parlamentare del Consiglio – nella Raccomandazione citata – avrebbe preso le mosse: «fin dalla fecondazione dell’ovulo, la vita umana si sviluppa in modo continuo sicché non si possono fare distinzioni durante le prime fasi (embrionali) del suo sviluppo».
E nella Raccomandazione 874 (1979), su una Carta europea dei diritti del fanciullo, l’Assemblea aveva già affermato «i diritti di ogni fanciullo alla vita fin dal momento del concepimento».
Chi diversamente esprimeva in merito alla causa in giudizio parere parzialmente dissenziente, rispetto alla pronuncia della maggioranza, ha inteso chiarire che, per quanto «condivida il patrimonio genetico dei suoi “genitori” biologici, l’embrione è contemporaneamente un’entità separata e distinta, quantunque si trovi nelle primissime fasi dello sviluppo umano». Se l’embrione umano non fosse che «un elemento fondamentale dell’identità di un’altra persona, perché tanta dovizia di relazioni internazionali, raccomandazioni, convenzioni e protocolli che concernono la sua tutela?».
Di certo l’aborto, anche se lo Stato di diritto oggi lo consente, resta una scelta sofferta, e per lo più necessitata dinanzi a situazioni di particolari difficoltà, la cui valutazione avviene o dovrebbe avvenire secondo un principio di bilanciamento proprio del diritto, o quanto meno enunciato in una norma a comporre interessi entrambi meritevoli di tutela.
È questo il principio di civiltà che impedisce oggi di pensare quella stessa condotta abortiva come soluzione unica possibile, e ancor meno come diritto rivendicato in una Carta costituzionale.
Intraprendere questa strada significa non già affrontare un problema nella ricerca di una soluzione alternativa e solidale con la donna, piuttosto risolverlo per eliminazione, con esso eliminando la vita umana guardata unicamente come problema. La stessa Simon Veil, a cui risale la legge di depenalizzazione dell’aborto in Francia, all’Assemblea nazionale del 26 novembre 1974, affermava: «Lo dico con tutta la mia convinzione: l’aborto deve restare un’eccezione […] e sempre resterà un dramma». Uno sguardo e un richiamo a una “cultura dell’alterità” e della condivisione là dove il bisogno d’amore finisce per restare senza risposta.
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