Abbandono e resurrezione
Mi è capitato di dialogare attorno al recente saggio del filosofo Vincenzo Vitiello, Ripensare il cristianesimo. Un testo impegnato e appassionato, di cui certo si possono e debbono discutere più di una tesi. Ma c’è un’affermazione che mi ha fatto riflettere, anche in rapporto alle situazioni di evidente difficoltà a comunicare tra cultura laica e cultura d’ispirazione cristiana, sperimentate in questi giorni nel nostro Paese.
Vitiello afferma che il punto di vista che il cristianesimo ha oggi da guadagnare è quello di Gesù che sulla croce patisce l’abbandono. Non ho potuto non pensare, di qui, all’intuizione di Chiara Lubich che coglie in Gesù abbandonato (così lo chiama per nome) «la pupilla dell’occhio di Dio sul mondo: un vuoto infinito attraverso il quale Dio guarda noi: la finestra di Dio spalancata sul mondo e la finestra dell’umanità attraverso la quale si vede Dio».
È così, per Chiara, e cioè nel suo abbandono vissuto come amore, che Gesù ci dice e ci dona come guardare a Dio e come guardare all’uomo in risposta coerente e grata allo sguardo con cui Dio guarda a noi. Questo lo “stile” cristiano di essere al mondo e anche di trattare insieme con chi la pensa diversamente le questioni e gli impegni che tutti ci toccano. Certo, se Gesù, l’abbandonato, non fosse risorto, «vana sarebbe la nostra fede». L’abbandonato infatti è risorto. Ma il Risorto è l’Abbandonato. La risurrezione non è dunque smaccata vittoria, né vessillo di trionfo: chiama al ritorno dei discepoli nella quotidianità della Galilea ma nella fede che li fa vivere come Gesù.
Non ha a che fare tutto questo con quell’essere “nel” mondo, ma non “del” mondo di cui parla Gesù? Non nasce di qui la chiamata rivolta a ciascuno, anche laicamente, a stare l’uno accanto all’altro e nella vicendevole cura – in gioia discreta e grata –, tra le fatiche e le prove delle opere e dei giorni dell’umano?
Non c’è qui – insegnata a lacrime e sangue dall’abbandonato – l’arte, tutta da imparare, d’essere raccolti in libertà in quell’ek-klesía (la comunità di chi è chiamato da Dio in Gesù) che è tenda provvisoria ma accogliente della reciproca ospitalità? Non allude anche a questo la preghiera di Gesù al Padre nel Vangelo di Giovanni: «Io in essi e tu in me, affinché siano consumati nell’uno» (cf. Gv 17,21)?
Tutto ciò, vien da chiedersi, vale solo, al di là d’ogni possibile umana esperienza nel tempo, per il mistero al-di-là, o vale già per l’esperienza fragile ma vera che il Figlio abbandonato c’invita a vivere nella storia, grazie al muto suo accoglierci alla mensa del suo corpo che è il pane eucaristico?