Abaya o non abaya: ma è questo il problema?
«Non c’è posto per l’abaya nella nostra scuola. In questi ultimi mesi le violazioni della laicità si sono moltiplicate, in particolare con l’esibizione di questi abiti religiosi come l’abaya e il qamis», ha affermato il Ministro Attal commentando il divieto, da lui stesso emanato, di entrare in classe indossando abiti tradizionali islamici.
Per chi non fosse addentro alle usanze di abbigliamento in uso nei Paesi islamici, l’abaya è un vestito femminile lungo, spesso nero ma anche colorato e decorato, che copre il corpo ad eccezione del capo e di mani e piedi. Di per sè l’abaya non riguarda il capo, coperto di solito con un hijab che lascia scoperto il viso. L’hijab non è il niqab, che nasconde anche il viso tranne gli occhi, o il famigerato burqa che sequestra completamente tutto il corpo: niqab e burqa sono vietati in pubblico, in Francia, dal 2010. Il qamis è l’analogo abbigliamento tradizionale maschile: una sorta di camicione che riveste dal collo alle caviglie, talora un po’ più corto. Ma in fondo non è l’abbigliamento maschile a creare problemi. Per chi non si fosse fatto un’idea abbastanza precisa di che cosa stiamo parlando, basta cercare nei siti web commerciali che ovunque, anche in Francia e in Italia, vendono abiti di tradizione islamica, per tutte le tasche.
Il punto al quale mira il divieto di Attal non è però la foggia dell’abito, ma l’accusa a chi lo indossa di attentare alla laicità della scuola francese e della stessa Repubblica. Volendo c’è anche del vero, ma solo nel senso che i gruppi islamisti, o anche tradizionalisti, incitano le donne e le ragazze musulmane, in Francia come altrove, a vestire abaya e hijiab, che reputano un obbligo sancito dalla sharia. Che poi l’abaya non si possa definire esclusivamente come un modo per ostentare una ideologia islamista, ma semplicemente un abbigliamento radicato in tradizioni e culture millenarie è un discorso che il ministro Attal (e il governo francese) non sembrano quasi voler considerare.
La fobia dell’islamizzazione, alimentata da alcune destre, può giustificare un provvedimento del genere: proibire alle ragazze di vestirsi secondo la cultura e la fede alla quale sentono di appartenere? Macron, a quanto pare, ha condiviso l’analisi e i provvedimenti del ministro Attal (membro di Renaissance, il partito del presidente francese). Secondo Macron, c’è in Francia una minoranza che «si sta appropriando di una religione e arriva a sfidare la Repubblica e la laicità. Non ci lasceremo sfuggire nulla. All’inizio del nuovo anno scolastico sappiamo che ci saranno alcuni casi, alcuni per negligenza forse, ma molti per cercare di sfidare il sistema repubblicano. Dobbiamo essere intransigenti». Ipse dixit, a quanto risulta.
I risultati del “divieto di abaya” non sembrano poi giustificare toni così drammatici: il ministro Attal avrebbe detto il giorno dopo (5 settembre) l’apertura delle scuole: «Ci sono ragazze che si sono presentate in abaya ieri a scuola, credo che fossero poco meno di 300». Ed avrebbe aggiunto: «Una grandissima maggioranza si è conformata al divieto, 67 non hanno accettato (di rinunciare alla abaya) e sono tornate a casa».
Quindi 67 irriducibili ragazzine possono rappresentare una minaccia alla laicità della scuola e della Repubblica francesi? Non potrebbe essere un altro il problema di fondo, come per esempio il modello della fallita integrazione degli immigrati che enormi problemi sta creando in Francia?
Per il filosofo Massimo Cacciari, la vera integrazione non dovrebbe significare “tu devi diventare uguale a me”, ma dovrebbe piuttosto porsi come un riconoscimento reciproco di culture e tradizioni diverse. Secondo quanto scrive un interessante redazionale di orizzontescuola.it (4 settembre 2023): «Per molti, la Francia, patria della Rivoluzione e dei valori repubblicani, dovrebbe rappresentare un baluardo di laicità. Tuttavia, l’autentica laicità, come sottolinea Cacciari, “implica l’accettazione delle usanze, delle tradizioni e della cultura altrui”. Se una società non è in grado di accogliere e rispettare le diversità culturali, religiose e tradizionali, può davvero definirsi laica? Oppure sta semplicemente sostenendo una forma di supremazia culturale?».
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