A Vincent
Caro Vincent, (…) la bellezza è nella natura, ma ci vuole qualcuno che, prendendoci per mano, ci insegni a riconoscerla, trascrivendola per noi nel linguaggio dell’arte. (…) Solo che identificare questo fascino, sbrogliare cioè lo splendore della natura dalle vincolanti catene della simmetria, comporta, come tu dicevi, uno sforzo che talvolta può arrivare fino allo svenimento. È un prezzo questo che tu, Vincent, hai pagato dopo aver sperimentato l’incomprensione per altre forme con le quali cercasti di comunicare il gran fuoco che avevi nell’anima e al quale nessuno veniva a riscaldarsi, neppure i poveri minatori del Borinage, assillati dalle tue evangeliche premure nel portar loro – antesignano del prete operaio – la luce della fede. Tu guardavi il creato, le persone, le cose e con intensa partecipazione le facevi te. Poi ce le restituivi brano a brano, trasfigurate, inverate. Aggiungevi bellezza alla bellezza. Alla bellezza del creato aggiungevi la bellezza del tuo genio che come un calice accoglieva i contesti umani e naturali nei quali via via ti trovavi a vivere: Nuenen, con i suoi contadini e artigiani poveri e terragni, dove entri in pittura come si entra in religione; Parigi, dove ti schiarisci idee e tavolozza alla sorpresa e alla scoperta dei tuoi colleghi impressionisti; Arles, dove prendi il volo con le tante stupende visioni del ponte Langlois che racchiude in primavera di colori tutti i germogli che fioriscono nel mondo; Saint-Remy, dove scopri a tue spese il ricovero e l’assistenza psichiatrica; e alla fine Auvers-sur-Oise dove la pressione del genio e lo sforzo dell’intensa produzione artistica ti portano a temperatura di fusione. Tutto in queste tappe: la gioia, la sofferenza, l’incanto, la fatica, diviene in te poesia. Vorrei dipingere degli uomini e delle donne con un non so che di eterno… esprimere l’amore di due innamorati con un matrimonio di due colori complementari, la loro mescolanza e i loro contrasti, le vibrazioni misteriose dei toni ravvicinati. Esprimere il pensiero di una fronte con la radiosità di un tono chiaro su un fondo scuro. Esprimere la speranza con qualche stella. L’ardore di un essere con un’irradiazione di sole calante. Queste tue parole sono il segreto per capire come mai, privo com’eri delle basi convenzionali di educazione al disegno, sei riuscito ad infrangere volta per volta il diaframma tra il sentito e l’espresso componendo un’opera d’arte con una sedia, un paio di zoccoli, un tronco d’albero. (…) A Londra, uscendo dalla National Gallery con la gioia di rievocare alla memoria tanti capolavori di Rembrandt, di Antonello e di Piero, del Castagno e di Paolo Uccello, coabitava in me un incessante interrogativo: Come avrà fatto Vincent (cosi ti firmi e così eri conosciuto) a fare un’opera che a buon diritto convive fra tanti capolavori con quattro ciuffi di erba spiga nel quadro Prato verde? Era sicuramente per quella tua ambizione che gli spettatori dei tuoi paesaggi avessero l’impressione di essere testimoni di un attimo di eternità. E nel far questo, come hai lasciato scritto nell’ultimo rigo di una lettera che ti è stata trovata addosso il giorno della morte: per il mio lavoro, io rischio la vita e la mia ragione vi è quasi naufragata. Dici bene quasi. La chiave di lettura è lì in quel quasi. (…) Spesso mi sembra che la notte sia ancor più riccamente piena di colori del giorno – confidasti un giorno a Theo – (…) se vi fai attenzione vedrai che certe stelle sono color limone, altre hanno dei fuochi rosa, verdi, blu, myosotis… Così per dipingere un ciclo stellato non è assolutamente sufficiente mettere dei punti bianchi su un nero blu…. Grazie,Vincent. Grazie per averci dato un cielo con una manciata di luci più stellate di qualsiasi cielo stellato ci sia dato vedere con i nostri occhi; un ramo di mandorlo in fiore nel quale c’è più primavera di qualsiasi apparizione stagionale; una corsia d’ospedale dove riviviamo lo stato d’animo di tutti i nostri cari nel momento della sofferenza e dell’isolamento. E grazie anche per aver scritto da Arles sempre all’inseparabile Theo: Sappilo bene, più ci rifletto più sento che non vi è nulla di più realmente artistico dell’amare il prossimo, e tu l’hai fatto di buon grado, con la tua opera di pittura, dove non c’è traccia di narcisismo. Dove anche le svogliature tecniche (come le ombre fatte con strie bituminose di lucido da scarpe o gli eccessi di pasta cromatica depositati sulla tela) sono giustificate dall’urgenza di far uscire dalla prigione della tua testa e del tuo cuore il messaggio d’amore verso l’uomo che il tuo occhio d’artista vedeva contenuto nel creato.