A Vienna, sulle tracce degli Asburgo

Nel centenario del primo conflitto mondiale che ha segnato la fine della loro monarchia, ritorna un capolavoro dello scrittore austriaco Alexander Lernet-Holenia
Il castello di Schonbrunn

Per secoli la casata degli Asburgo ha avuto come residenza principale la capitale austriaca. Molti sono i luoghi del centro storico di Vienna che ricordano questa dinastia. Tra i più importanti, il Duomo dove nel 1515 si tenne lo storico Congresso che sancì l’unificazione sotto gli Asburgo della corona ungherese e di quella boema; la Cripta degli Imperatori sotto la chiesa dei Cappuccini, dove dal 1633 sono stati sepolti 149 membri della famiglia imperiale; la chiesa degli Agostiniani con la sua cripta detta “dei cuori”, che ospita 54 cuori di membri della stessa, e dove Francesco Giuseppe e Sissi si unirono in matrimonio; l’Hofburg, il palazzo centro del potere degli Asburgo con i suoi favolosi tesori, gli appartamenti imperiali, il Museo delle argenterie di corte e la Scuola di Equitazione spagnola famosa per i cavalli lipizzani; senza trascurare una puntata alla signorile Kohlmarktstrasse con la sua celebre pasticceria, che forniva dolci delizie alla residenza imperiale. E infine, a meno di un’ora di auto dal Vienna, il monumento più visitato dell’Austria: il castello e parco di Schönbrunn, capolavoro barocco che si presenta oggi quasi integralmente nel suo aspetto storico originale.

Vienna dei Musei straripanti di capolavori, dei valzer di Strauss, degli scrittori. E appunto uno di questi ci fa da guida per darci l’idea di tutta un’epoca: Alexander Lernet-Holenia (1897-1976). Con i suoi contemporanei Joseph Roth e Stefan Zweig, egli fa parte della triade di scrittori austriaci che con le loro opere hanno celebrato il declino e la dissoluzione dell'impero austroungarico, un impero che sotto la dinastia degli Asburgo aveva riunito per quasi 500 anni popoli diversi per origine, lingua, religione, tradizioni. Dei tre, è quello che concluse la sua esistenza più normalmente, se così si può dire: morì per un cancro ai polmoni, mentre Roth finì distrutto dall’alcol (1939) e Zweig si suicidò nel suo esilio brasiliano (1942).

Scrittore prolifico, drammaturgo, poeta, saggista e sceneggiatore, Lernet-Holenia raggiunse l’apice del successo tra il 1939 e il 1945. Tra i pochi intellettuali di lingua tedesca non ebrei a non condividere l’ideologia nazionalsocialista e a rifiutare l’appartenenza al partito, ebbe una natura fortemente conservatrice e aristocratica. Viennese di nascita, insieme a Zweig e Roth è tra gli autori austriaci più pubblicati in Italia. Di lui è apparso in una nuova traduzione, per i tipi di Adelphi, un capolavoro dal respiro epico: Lo stendardo.

Protagonista vero di questo romanzo ambientato durante la Prima guerra mondiale è il glorioso drappo con l’immagine dell’aquila bicipite esibito in cima ad un’asta «per mostrare alla truppa qualcosa a cui essa debba serbarsi fedele». La sua vista è come un colpo di fulmine per il giovane alfiere Menis, inviato verso la fine del 1918 sul fronte dei Balcani. Egli è diviso tra l’attrazione per la bellissima Resa, conosciuta a Belgrado, e per questo simbolo.

Ma ormai lo stendardo non rappresenta più l’unità di un impero. Ne è prova il rifiuto della truppa, composta di polacchi, ruteni, boemi e rumeni per lo più, di attraversare il Danubio: sull’altra sponda, infatti, dove è appostato il ben più numeroso nemico, andrebbe incontro ad una inutile carneficina. Violenta la reazione dei comandanti, che ordinano di aprire il fuoco sugli ammutinati. Prima però l’autore inserisce un episodio ricco di suspense: è quando a Menis il capitano Hackenberg, preannuncia la consegna, da parte dell’alfiere Heister cui rende nota la prossima morte in battaglia, dello stendardo oggetto dei suoi desideri inconfessati.

La strana profezia si verifica puntualmente nel corso di una carneficina assurda quanto feroce. «Decimato, sanguinante, il reggimento seguì passo passo lo stendardo fino a Belgrado», dove Menis ritrova Resa più innamorata che mai. E qui la narrazione prende il ritmo emozionante di un romanzo d’avventure: nella città conquistata dal nemico il manipolo di cui fan parte l’alfiere e il suo attendente,  Resa e due ufficiali trova dapprima rifugio in un recesso del medesimo edificio nel quale si sono acquartierate le truppe inglesi; seguono l’uccisione del tenente Anschütz e la fuga mozzafiato degli altri quattro nelle gallerie di epoca ottomana che comunicano con una fortezza sul Danubio, fino a sbucare verso la salvezza.

Dopo ulteriori peripezie, l’ultima surreale scena ci trasporta nei dintorni di Vienna. È notte, ma il castello di Schonbrünn è illuminato a giorno. Menis si inoltra nelle splendide sale fra due ali di funzionari di corte, guardie di palazzo, ufficiali, domestici. «Cosa sta succedendo?» domanda l’alfiere ad uno di questi in livrea di gala. «Le loro maestà ci lasciano» è la risposta rassegnata. Infatti l’imperatore e l’imperatrice passano fra gli inchini della folla come fantasmi per poi allontanarsi in automobile. Menis rimane: ha un ultimo dovere da compiere. Giunto in una sala dove alcuni sottufficiali stanno bruciando fasci interi di bandiere in un caminetto, tira fuori dalla giubba lo stendardo e lo getta tra le fiamme. Contemplando il rogo ha come una visione: quei vessilli prima di carbonizzarsi sembrano risollevarsi, svettare un’ultima volta sopra tutto il popolo.

Se Menis è stato fedele al suo stendardo fino all’ultimo, Resa lo è stata a lui: l’alfiere la ritroverà all’ingresso del castello. «Mi aveva aspettato ed era lì, come se mi aspettasse da sempre, come se lo sapesse bene che sarei venuto da lei quando tutto il resto fosse passato».

Le devastazioni di una guerra marchiano gli animi anche dopo la firma dei trattati di pace: tale il monito de Lo stendardo. «Una vera guerra non finisce – è l’amara costatazione di Menis –. Continuava in tutti quelli ch’erano tornati a casa credendo che così la guerra finisse. Essi in realtà non erano tornati. Erano tuttora sul campo di battaglia. Se l’erano portato dietro, il campo di battaglia, ed ora continuavano a portarlo in giro con sé, tutt’intorno le cose dovevano essere di nuovo quelle di prima, loro stessi però non erano più in sintonia con le cose».

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