A Venezia prove di perdono

Darren Aronofsky
Il dolore sfianca, e uccide. Ma la morte può essere occasione di una qualche redenzione. Così, nella carne e nel sangue come il Cristo di The Passion di Gibson, la cui citazione gli suscita sorpresa – perché non lo conosce -, l’ex lottatore Randy Robinson, alla deriva fisica e affettiva, cerca una rinascita. Cerca pure l’amore con una spogliarellista, il rapporto con la figlia trascurata, un altro lavoro. Ma il perdono dalla figlia gli viene negato con una indifferenza che lo raggela, e lui stesso, quasi per redimersi, accetta di morire sul ring. Crudele, forte, con un Rourke maschera fisica di una vita drammatica, il film è stato una punta nella mostra 2008. La quale, dopo lo scoppiettante inizio con Burn after reading dei fratelli Coen (con le star George Clooney e Brad Pitt) pareva adagiarsi su una placida bonaccia (aiutata dal calo di presenze e dalla qualità non eccelsa di parecchi lavori). Il perdono, per sé stessi o per altri, appare tema sotteso a diverse opere, forse per un bisogno tutto umano di ricominciare. Anche per Anne- Marie che si separa da Alex e, presa dalla gelosia per l’altra (L’Autre è appunto il titolo del film di Patrick Bernard e Pierre Trividic), perseguita lui e lei sino alla follia: ma è costretta a ricercare sé stessa, per liberarsi dal male che la inquieta, accettandosi in un possibile nuovo percorso di vita. Un dramma che richiede doti interpretative raffinate, come ha dimostrato Dominique Blanc, attrice francese di notevole spessore psicologico, purtroppo da noi poco nota (da lei le nostre grandi ne avrebbero da imparare…), giustamente premiata con la Coppa Volpi come miglior attrice. Ed è ancora il perdono come dimenticanza del dolore trascorso o come ricerca di superamento del reale a sottintendere la delicata trama di Papier soldat di Alexsey German Jr. (Leone d’argento alla miglior regia) dove le due donne – moglie e amante – che hanno perduto il soldato Daniel, grazie all’amore per lui trovano la forza addirittura di vivere insieme. O come l’intellettuale Amer che ritorna dall’Europa nella sua Etiopia sotto la dittatura di Mengistu. Ripercorre la propria storia, ricerca il calore di una famiglia, tenta di sfuggire alla violenza, per ritrovare sé e la sua terra in frantumi. Premio speciale della giuria, il film di Haile Gerima – unico rappresentante della ormai dimenticata Africa – è un epos grondante un lento sudore dell’anima. In effetti, è un mondo in frantumi, nebuloso, che a fatica cerca di ritrovarsi, quello che i film della rassegna ripercorrono, una umanità terrorizzata dalla morte come nel violento, surreale Nuit de chien di Werner Schroeter (Leone speciale della giuria) o nello spiazzante – purtroppo non premiato – The Hurt Locher, di Katryn Bigelow: la guerra rende i soldati americani del reparto antimine in Medio Oriente persone disumanizzate dal rischio quotidiano della morte, cercando di salvare un brandello della loro umanità. Ci riusciranno? È la domanda che la rassegna lascia aperta, anche nei momenti in apparenza più lievi, come il musical malese Sell Out, satira giovanile amarognola sul mondo del lavoro. La risalita italiana Ben tre opere in concorso e altre novità. Il Belpaese si è sprecato e, in parte, non ha deluso. La pascoliana malinconia dei ricordi adombra Il padre di Giovanna di un Pupi Avati più inquietante del solito, con un grande Silvio Orlando (Coppa Volpi miglior attore) nei panni di un padre che deve perdonarsi di non aver compreso la figlia malata. Il cupo dramma familiare raccontato da Ferzan Ozpetek ne Un giorno perfetto – dove non si riesce a riconciliarsi – invece, nonostante l’abilità tecnica, resta allo stato bozzettistico forse per un eccesso emotivo che ne pregiudica la linearità. Anche il ritorno di Pappi Corsicato nel cinico Il seme della discordia, su temi come amore aborto tradimento eccetera, appare – al di là della bravura degli interpreti – più che altro una pungente esercitazione intellettuale sulla società nostrana. Ma la vera sorpresa si è rivelato Il pranzo di Ferragosto, di Gianni Di Gregorio (Miglior opera prima). È la sorridente, e tragicomica, vicenda – molto personale – di un figlio celibe, mammone e astuto, che si ritrova appioppate le mamme degli amici a ferragosto. Una storia semplice, tenera, dove si ride e si sorride perché cosparsa di punzecchiature di verità: e di una straripante voglia di vivere da parte delle anziane signore. Un gioiello, che finalmente ha fatto risalire una mostra, percorsa da storie fumose e tristi di giovani e famiglie, al primo piano della freschezza ritrovata. In fondo, basta un poco d’amore – anche se forzato – a ridar vita ai vecchi. Come agli autori giovani che hanno bisogno di non prendersi troppo sul serio. Il cinema è anche leggerezza. Ci riusciranno, nell’edizione 2009, gli organizzatori a farci vedere opere dove l’arguzia si unisca all’intelligenza, facendoci respirare a pieni polmoni in laguna? Ce lo auguriamo. Perché, dati i tempi, ce n’è davvero bisogno.
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