A tu per tu con la morte
Un dettaglio di quella notte tragica non fu tuttavia previsto da Felice. Lentamente al cospetto del morto maturò in effetti una sorta di “solidarietà arrabbiata”: la bella filippina ce l’aveva con lui perché era morto troppo presto; la figlia perché non l’aveva ancora inserita appieno nel lavoro; la ex moglie perché l’aveva costretta a quell’ultima commedia; gli amici perché gli aveva rovinato quel fine settimana di Ferragosto. Motivi futili, paragonati a una morte, eppure reali, come ancore gettate a mare per evitare la deriva dei sentimenti. Quell’insolita connivenza evitò la bagarre, il tutti contro tutti.
Il medico giunse solo all’alba con la sua ormai inutile valigetta. Costatò l’avvenuto decesso e redasse il certificato di morte con formule fredde come quel cadavere.
Malgrado la ferrea guardia della bella filippina, ognuno dei presenti riuscì a isolarsi in un momento o nell’altro con quel che restava di Felice. «Vita e destino», avrebbe scritto Vassilij Grossman. Poche lacrime e brandelli di preghiera, l’unica forma di comunicazione col defunto che restava loro, nonostante fosse accompagnata in ognuno di loro dal dubbio sulla loro efficacia. Se Dio fosse esistito avrebbe permesso quella morte? Perché aveva concentrato in quell’uomo tante debolezze? E come mai, malgrado tutto, quell’essere umano per certi versi spregevole aveva attirato l’amore di tante donne?
Quei momenti di intimità Felice li aveva immaginati prima che l’ictus mortale terminasse il suo lavoro. Memore del suo indefettibile rifiuto di trattenersi al cospetto di un cadavere, persino quello della madre, immaginava quanto quei momenti potessero essere autentici. Non si può barare con un morto, né ingannare la propria coscienza dinanzi all’irrimediabile finitezza umana.
Immaginò pure che la sua insolita assenza di reazioni emotive – reagiva sempre impulsivamente – avrebbe trasmesso ai suoi la pressante richiesta di perdono. Ricordò con nostalgia il Padre nostro, recitato cinquant’anni prima: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Avrebbe voluto far capire a Virginia che, nonostante le angherie impostele, la “sua” donna era sempre lei. Alla bella filippina, invece, avrebbe consigliato di rifarsi una vita. La figlia avrebbe sperato di metterla in guardia contro il proprio carattere, così simile al suo, altalenante e ingannatore.
Il loro perdono Felice in realtà non lo ottenne subito, inutile dirlo. Quello divino, invece sì. L’uomo deve passare per i meandri del risentimento e per la sedimentazione dei sentimenti. Non Dio.
Da Michele Zanzucchi, NIENTE E' VERO SENZA AMORE (Città Nuova, 2015)