A tu per tu con il dramma

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Peter Alderman si trovava per una conferenza al World trade center l’11 settembre 2001. Aveva 25 anni. Da quelle torri non è più tornato. Come lui molti altri, troppi. Lo sappiamo. I suoi genitori hanno deciso di reagire alla disperazione che avrebbe potuto assalirli creando una fondazione, la Peter C. Alderman Foundation (info@petercaldermanfoundation. org) per alleviare la sofferenza delle vittime del terrorismo e della violenza di massa. Peter era troppo giovane per lasciare la sua impronta – afferma la madre Elizabeth -, ma attraverso il lavoro che la Fondazione sta facendo, noi lasceremo un marchio indelebile della sua esitenza. Da qui la progettazione di un master, di una società internazionale per medici che si occupano di vittime della violenza, di un centro di eccellenza per queste cure. I parenti dei morti dell’11 settembre come i sopravvissuti, i bambini di Beslan e le loro famiglie, le donne stuprate della Bosnia, gli scampati ai genocidi del Rwanda, i baby-soldato della Sierra Leone… una lista tristemente lunga nel tempo e nello spazio che, per lo più, porta con sé odio e vendetta. Centinaia di milioni di vite stravolte, di menti attaccate dal morbo mai debellato che si chiama violenza umana, di persone che chiedono un aiuto per rimarginare le ferite invisibili dell’anima più ancora che del corpo. One billion, cioè un miliardo: è il numero degli esseri umani che nel mondo, si stima, hanno subito o visto subire violenze inaudite. One billion è anche il nome del progetto che Caritas diocesana di Roma, Istituto superiore di sanità e Università di Harvard hanno presentato di recente a Roma in un convegno che ha visto radunati i ministri della sanità di 50 paesi scossi da guerre e violenze. Perché comunque non basta una pace firmata se non è accompagnata da un percorso di riconciliazione. Il disturbo da stress post traumatico (Ptsd) è una vera e propria patologia riconosciuta ufficialmente sin dal 1980 dall’Organizzazione mondiale della sanità che ha studiato i disagi accusati dai veterani del Vietnam e della Corea. Gli effetti della malattia si sono poi rivelati ancor più allarmanti quando sono stati verificati su intere popolazioni come quelle dell’ex Jugoslavia o del Congo. Il male più diffuso è la depressione spiega il dott. Mollica, psichiatra statunitense, direttore del programma per i rifugiati dell’università di Harvard. Riguarda il 6 per cento della popolazione normale – prosegue – ma tra le popolazioni sconvolte dalla guerra tocca il 40 per cento. È la soglia oltre la quale si annidano altri disturbi del disordine da stress post-traumatico: incubi, memorie ricorrenti di eventi traumatici, insonnia, ansia. E, a seguire, ipertensione, diabete, tumore. Oggi i gruppi più a rischio sono i genitori con figli uccisi, le famiglie con desaparecidos, i sopravvissuti alle torture e alle violenze sessuali. Non sfuggono a nessuno le ripercussioni di un simile stato di salute mentale, pesante e diffusa eredità di guerre, terrorismo, regimi totalita- ri… Si è viceversa potuto costatare che il sostegno psichico alle vittime, riducendo i sentimenti di odio e di violenza, ha spesso favorito il processo di riappacificazione e quindi la ricostruzione sociale e la rinascita economica. Il progetto One billion è considerato da molti un’iniziativa di portata storica anzitutto perché mette in collegamento specialisti, operatori del settore sanitario, ministri, esperti, organizzazioni ed enti a livello mondiale. Lo si vede già da una pubblicazione curata da alcuni dei promotori del progetto, il Book of best practices, che raccoglie numerosi contributi internazionali sui temi del trauma da violenza e sul ruolo della salute mentale nella ricostruzione post conflitto. Ne parliamo di seguito col dott. Ranieri Guerra, che ci racconta, tra l’altro, come sia stato importante per l’Istituto superiore di sanità essere coinvolto nella guerra dei Balcani fin dal secondo giorno e aver trascorso anni interi nella città di Sarajevo. È stato naturale, quindi, finita la guerra trovarsi a parlare con la società civile e con il sistema sanitario cercando di capire come far tesoro dell’importante esperienza realizzata. È stato così che si è fatto un primo tentativo: un seminario tra tecnici e professionisti, allargato a coloro che decidono della politica sanitaria. Erano i prodromi del progetto One billion. Da lì, infatti, si è passati a coinvolgere non solo persone singole ma anche istituzioni, enti pubblici, di ricerca, universitari, ong, associazioni e se ne è fatto un progetto che coinvolge tutta quanta l’organizzazione sociale. Credo che sia importante la benedizione avuta dalle maggiori organizzazioni internazionali come la Banca mondiale – afferma il dott. Guerra -. L’interesse di un ente economico finanziario dimostra che il recupero delle relazioni sociali sta alla base anche di una ripresa ottimale della produttività . In effetti la depressione e gli altri disturbi della salute mentale (con manifestazioni di violenza, suicidi, deficit scolastico che ne derivano) hanno un impatto anche economico che, nei paesi industrializzati, è stato persino studiato. Ma al di là dell’aspetto economico che pure è importante nella ricostruzione di una società distrutta, non si può ignorare quel diritto ad uno standard di vita adeguato per la salute e il benessere personale e della propria famiglia che l’articolo 25 della Dichiarazione dei diritti umani riconosce ad ogni persona. Ecco l’importanza di un progetto come One billion che mentre punta alla ricostruzione sociale, non perde di vista il singolo individuo. Perché difficilmente ci sarà la pace nel mondo se prima non c’è nel cuore dell’uomo, di ogni uomo. Mettere insieme le competenze A colloquio col dott. Ranieri Guerra, direttore dell’ufficio relazioni esterne dell’Istituto superiore di sanità. Curare le ferite invisibili di un miliardo di persone segnate per sempre dalle violenze subite. Un progetto ambizioso? Il problema fondamentale è che in genere nella fase immediata successiva all’emergenza, ci si preoccupa più della ricostruzione delle infrastrutture (ospedali, strade, tutto ciò che riguarda il tessuto produttivo) e molto meno di tutto ciò che riguarda il tessuto sociale. Quello che vogliamo fare, invece, è proprio recuperare il sistema delle relazioni. Ci sono in tal senso esperienze importanti in giro per il mondo ma sono molto localizzate. Il tentativo di questo progetto è di mettere in rete tutto ciò che funziona in modo tale che diventi patrimonio di coloro che purtroppo si trovano in tali situazioni. Insomma un impegno che non può essere occasionale o demandato solo all’iniziativa di certe ong… Le ong hanno fatto un lavoro ec- cellente e continuano a farlo ma una volta finito il loro intervento ciò che si è realizzato non rimane patrimonio del sistema che invece dovrebbe garantirne la continuità. Purtroppo né i nuovi governi, né i grossi donatori internazionali hanno sempre presente quest’urgenza. La Banca mondiale ha cominciato da poco a recepire il problema, le cooperazioni bilaterali lo fanno in maniera occasionale, l’Organizzazione mondiale della sanità ha un ventaglio di priorità talmente vasto da fare un po’ fatica a focalizzare la sua attenzione su quest’aspetto. Lei è fra quelli che hanno curato la redazione del Book of best practices. Se ne parla come di un contributo importante. Perché? È la prima volta che vengono ricercate le evidenze scientifiche di questo tipo di traumi che abbiano una significatività tale da essere proposte come dei punti di riferimento. Nel volume, poi, si offre una sorta di manualistica delle pratiche migliori. Evidentemente non è un testo definitivo, né una summa, ha l’ambizione di essere un testo aperto che si aggiornerà nel tempo. Il progetto One billion è coordinato da vari enti, tanto diversi fra di loro. E’ evidente che c’è bisogno di un lavoro sinergico a più livelli… Esattamente. Credo che la diversità sia una delle innovazioni che abbiamo cercato di proporre. L’università di Harvard è altamente specializzata nell’ambito della patologia mentale; la Caritas offre un contributo importante per tutto ciò che concerne l’aspetto etico, la cura dell’escluso, dell’emarginato e questo al di là degli aspetti confessionali; noi siamo un ente di sanità pubblica quindi entriamo in questo campo di attività perché riconosciamo che la salute mentale è fondamentale nella ricostruzione di un sistema sanitario che abbia un’attenzione verso la popolazione oltre che verso l’individuo. A tutto ciò si è aggiunto un lavoro congiunto che in questi due ultimi anni e mezzo ci ha impegnati per realizzare il convegno di Roma. A Roma appunto son venuti numerosi ministri della sanità dei paesi coinvolti nel progetto. Quali sono le principali prospettive emerse? Devo dire che siamo rimasti positivamente sorpresi perché ci aspettavamo delle espressioni più diplomatiche mentre ci siamo trovati di fronte ad affermazioni esplicite. Nessuno ha negato i problemi, ci sono stati contributi rilevanti densi di significato e di prospettiva, di adesione al progetto. La conferenza è stata l’occasione per mettere insieme diverse competenze e diverse visioni anche di politica sanitaria. Partiremo dall’impostazione di un database internazionale su cui far confluire tutte le nostre esperienze garantendo l’accesso ai professionisti di quei paesi che hanno bisogno di avere tale supporto.

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