A Trieste un’esperienza comunitaria che ora deve continuare

Una riflessione dall’interno dell’organizzazione della Settimana sociale dei cattolici in Italia per andare al cuore della Democrazia con il metodo esigente della partecipazione
Foto Settimane Sociali Trieste

Più di un anno di preparativi e poi 5 intense giornate a Trieste dal 3 al 7 luglio per la 50esima Settimana Sociale dei cattolici in Italia (non: italiani, ma in Italia): “Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro”.

Non possiamo negare che quella politica appare tuttora una esperienza lontana dalla vita dei cristiani; ragione in più, quindi, per interrogarci proprio su questo orizzonte che plasma tanto profondamente le nostre città di oggi e il nostro futuro.

La distanza dalla vita pubblica che tutti osserviamo, non va attribuita unicamente al banale luogo comune del crescente individualismo. Ci sono ragioni che si sommano, che chiedono approfondimento e assunzione di responsabilità: lo stesso magistero della Chiesa cattolica, davanti alla democratizzazione del XX secolo si è mosso tra brusche frenate e accelerazioni.

Elena Granata, vicepresidente del Comitato scientifico e organizzatore, ha segnalato più volte la necessità di comprendere tra i fattori anche il «profondo processo di privatizzazione degli spazi pubblici, ridotti a spazio di consumo» che oggi, anche in Italia, impoverisce gravemente la naturale socialità delle persone e la spinta a condividere, a costruire il bene comune.

Anche per questo − l’abbiamo constatato con soddisfazione − la Settimana sociale, che avrebbe potuto consumarsi solo tra le pareti del grande contenitore congressuale delle Generali, è stata invece, e soprattutto, un’esperienza di… piazze. Oltre ai 1.000 delegati, infatti, altri 6.000 hanno voluto dare il loro contributo nei “villaggi delle buone pratiche della partecipazione” (più di 300) e nelle “piazze della democrazia” al centro della città.

Il programma della Settimana componeva quasi una scacchiera, permettendo di scegliere dove e con chi approfondire ora un tema, ora un altro. A me, per fare un esempio, è toccato moderare il dialogo in piazza Verdi che sabato 6 luglio ha messo a tema: “La costruzione della pace, dal disarmo alla riconciliazione”.

Un dibattito che poteva rivelarsi inconcludente per i diversi posizionamenti che tante volte ci dividono quando si parla di pace, senza una adeguata chiarificazione. Ma Patrizia Giunti della Fondazione La Pira, Alessandra Morelli di Unhcr e Nello Scavo inviato di Avvenire hanno saputo coinvolgere le più di 400 persone presenti e proporre a tutti un nuovo impegno in prima persona.

Al rientro da Trieste, le sintesi possono muovere da punti diversi, comunque limitati. Resta la difficoltà di riuscire a trasmettere a chi non c’era poco più di qualche tocco, perché un evento sulla partecipazione non può essere descritto astrattamente!

A questa difficoltà risponde anzitutto l’impegno di una grande trasparenza: il sito delle Settimane sociali è carico di documenti, immagini, video; su una pagina condivisa della Rete, facilmente raggiungibile, sono disponibili a tutti le principali relazioni presentate nelle plenarie (dal presidente Mattarella, a docenti di scienze sociali, teologi e biblisti, da animatori di esperienze sociali di avanguardia, fino a papa Francesco), ma anche i testi che numerosi protagonisti della Settimana Sociale hanno offerto in fase di preparazione, aprendo il loro pensiero alla discussione.

Tra questi, a mio parere merita sottolineare l’esercizio che è stato fatto dai coordinatori dei movimenti civili ed ecclesiali presenti a Trieste (Azione Cattolica Italiana, ACLI, Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani, Comunità di Sant’Egidio, Fraternità di Comunione e Liberazione, Movimento Cristiano Lavoratori, Movimento Politico per l’Unità Focolari, Rinnovamento nello Spirito): era facile indentificarli, a piccoli gruppi, «a dibattere senza cercare scorciatoie – ne parla così Argia Albanese del Mppu −, per consolidare l’amicizia, la stima reciproca, e per portare a casa un risultato tangibile», una lettera alle Istituzioni: “Abbiamo a cuore la democrazia”. Un’iniziativa che ha testato il loro desiderio e la loro capacità di cooperare, una dichiarazione a proseguire. A conferma che il cammino della sinodalità si intreccia con quello della partecipazione civile.

Come fare a dire di più? Ad esempio, della metodologia partecipativa che ha intessuto il programma in sala? Io ho fatto parte del Laboratorio 6, per l’ambito tematico: “Convivenza, cittadinanza, stili di vita”: 20 persone, letteralmente da tutta l’Italia, con due giovani facilitatori.

Con altri 44 gruppi riuniti in “circle”, in grandi sale inevitabilmente rumorose, abbiamo lavorato per 6 ore complessive (il doppio rispetto al tempo che nel programma è andato all’ascolto dei temi generali).

Condizioni complicate: non si trattava solo di far incontrare visioni differenti per età e provenienze, ma anche profili professionali, civili ed ecclesiali: sindaci, operatori delle Caritas, sindacalisti, vescovi, economi delle diocesi, membri dei Centri per la vita, giovani ambientalisti, docenti, impegnati nelle parrocchie e nei movimenti…

Un metodo rigoroso ci ha permesso di esprimerci e di ascoltarci con cura, perché anche le nostre esperienze, così differenti, trovassero voce: una vera prova di intelligenza collettiva, di quelle che a mio parere avranno tanto da dire al grande cantiere delle metodologie partecipative di cui la democrazia si alimenta, con spessore sempre maggiore (speriamo!) anche in Italia.

Da parte mia conoscevo il percorso che il regista dell’iniziativa, il filosofo Giovanni Grandi dell’Università di Trieste, aveva predisposto, ma gran parte dei partecipanti lo affrontava per la prima volta.

Le possibilità di arenarsi non ci hanno fermato. Solo un esempio: mi ha sorpreso la fase in cui, verso la conclusione, a gruppi di tre siamo stati invitati a progettare una proposta partecipativa di tipo politico, precisando attori, obiettivi, strumenti.

In 20 minuti dovevamo comprenderci e formulare un progetto… Era alto il rischio che tutto si trasformasse in un grande mercato, dato che ciascuno portava con sè almeno una idea da offrire con convinzione! E invece ognuno ha tolto il piede dall’acceleratore, non sono affiorate partigianerie, non hanno prevalso quelli che sanno parlare meglio degli altri.

Nella nostra terna, l’idea che ha preso forma mi ha persuaso anche se all’inizio non era la mia: ora vi leggevo non solo una delle iniziative singolari che le nostre realtà sono in grado di produrre, ma una risposta concreta e coerente anche con la mia analisi, probabilmente valida in tanti contesti. Abbiamo consegnato con convinzione gli appunti condivisi e, con la stessa curiosità, siamo andati a leggere quelli delle altre terne! Qualcuno lo diceva ad alta voce: questa democrazia ha ancora spazio per noi… Forse è questione di allenamento, è questione di accettare la sfida.

Non possiamo negare che di partecipazione, ascolto e connessioni, spesso solo virtuali, sono piene le nostre giornate, e quante volte emergono frammentazione e solitudine, disillusione e manipolazione.

A Trieste le cose sono andate diversamente: è la volontà libera e responsabile delle persone che deve prendere in mano i processi (e com’è importante il rispetto delle regole!), che può e deve orientare l’azione senza smettere di far emergere le criticità, che deve indicare le priorità che costruiscono il bene comune.

Un timore? Che qualcuno immagini che questo sia un tema accanto ad altri e che ora sia possibile passare ad altro. Davvero non è così.

Non hanno trovato spazio a Trieste le grandi domande sulla democrazia nel pianeta, sulla sua “esportazione” formale, sul rapporto tra democrazia diretta e rappresentanza, sul rapporto tra democrazia e pace, tra democrazia e informazione…

La riflessione, il confronto e la sperimentazione devono continuare, alla luce di nuovi paradigmi emergenti. Abbiamo aperto un cantiere, la nostra fragile democrazia ne ha più che mai bisogno.

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