A Siracusa il sacrificio di Alcesti

La bella e raffinata messinscena del regista Cesare Lievi nella cavea del teatro greco, dove l’eroina di Euripide esorcizza la morte sacrificandosi per il marito Admeto, e resuscitando
Alcesti

C’è un vasto campo di papaveri (il fiore del culto di Demetra) sotto le passerelle che conducono al palazzo di Admeto e di Alcesti, che ricorda la vastità dei garofani piantati sul palcoscenico nel memorabile spettacolo di Pina Bausch “Nelken”. La reggia è una stilizzata costruzione geometrica color rosso (dello scenografo Luigi Perego) con dei tendaggi neri che si apriranno e chiuderanno svelando i bianchi interni della casa e le azioni dei protagonisti (un rimando visivo, anche nei costumi del coro, all’arte giapponese). Rosso nero e bianco sono i colori dominanti, simboleggianti la vita, il lutto, la serenità. Un arco esistenziale che copre la vicenda di “Alcesti”, la sposa del re di Tessaglia che sacrifica la sua vita in cambio di quella del marito. La messinscena di Cesare Lievi (alla sua prima regia a Siracusa) si apre con una processione funebre con seguito di coro maschile e femminile e di banda musicale, che percorre tutta la cavea del Teatro Greco: un tipico rito mediterraneo o balcanico (e il pensiero corre a Goran Bregovic) che ci immerge in una territorio a noi vicino. Ma subito, con l’effetto acustico di un cataclisma, ci catapulta in un mondo arcaico. Risucchiato da un vasto telo nero con cui prima era stato coperto da Thanatos e Apollo, il coro maschile riaffiora dalla terra dando inizio alla tragedia. Tragedia strana e umanissima l’Alcesti di Euripide, dove Admeto, destinato a morire, per un dono di Apollo ha la possibilità di sottrarsi a Thanatos, purché qualcun altro muoia al suo posto. Solo Alcesti si offre di sostituirsi al fato del marito dato che nessuno, nemmeno Ferete, l’anziano genitore del re, è disposto al sacrificio. Il deux machina è Eracle, il quale piombato in casa nel pieno del lutto, accolto con tutti gli onori dell’ospitalità, ma inconsapevole che colei che tutti piangono è Alcesti, gozzoviglia mentre tutti gemono. Appena scoperto che Admeto, per dovere di ospitalità nei suoi confronti, gli aveva nascosto la ragione del proprio lutto, per gratitudine ingaggia, col beneplacito degli déi, una lotta con la morte, riportando infine Alcesti alla luce e all’affetto del marito. Ricondotta in vita Eracle la riconsegna velata. Il consorte sembra volerla riconoscere, senza però chiarire se sia lei veramente o una replicante, o l’immagine di una comoda finzione, tanto più che per tre giorni non le sarà concessa la parola. Su questo silenzio la tragedia si chiude, lasciando nello spettatore il dubbio e una sospensione. L’eroina euripidea è stata oggetto di una sterminata saggistica che ha dibattuto sulla natura composita del testo, che tratta un argomento tragico con toni e interventi da commedia, secondo la trasgressività propria dell’autore nel degradare divinità e tradizioni, ma anche nel superare i confini tra i generi. È, infatti, una tragedia che fa anche ridere. Non a caso, ha ispirato rifacimenti in chiave satirica e surrealista, ma anche politica. Perché curiosa è la figura di Admeto che rifiuta il suo destino di morte e poi si lascia andare a forme di assurdo egoismo nei riguardi della moglie che ha preso il suo posto, mentre nella scrittura di Euripide la figura di Eracle sembra uscita da un dramma satiresco. Sono diverse le sequenze che si prestano a una doppia lettura drammatica o parodistica. E moltissime sono state le regie. Questa di Lievi, che ha i toni della fiaba, mette in relazione il mondo antico precristiano e quello cristiano, l’idea di morte e di resurrezione, mantenendo un senso di indagine col mistero della morte. Ben rappresentato il cast attoriale che trova un ruolo perfetto per Admeto in Danilo Nigrelli: contrito e furente (specie nel dialogo di accuse tra padre e figlio), di assoluta timbratura, in asse tra smarrimento, viltà e rimorso. Una egregia e qualificante prova d’attore cui sono accompagnate quelle di Galatea Ranzi, col giusto pathos della donna-eroe salutata come un guerriero che sceglie di morire gloriosamente; di Stefano Santospago, un nerboruto, un po’ triviale, ironicamente tracotante Eracle; di Paolo Graziosi, Ferete, il vecchio padre vigliacco che rivendica il suo diritto alla vita difendendo i privilegi dei re, senza calcoli per i sentimenti.

Al teatro Greco di Siracusa per il 52° Ciclo di Spettacoli Classici dell’Inda. Fino al 19 giugno.

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