A Short Theatre, i linguaggi della scena contemporanea

Al Teatro India di Roma, fino al 18 settembre, tanti gli appuntamenti di teatro e danza, eventi performativi e musicali all'insegna del "Se non vedi non credi..."  
Short

Affollatissimo. Giovane. Contemporaneo. Il festival Short Theatre, sotto la direzione artistica di Fabrizio Arcuri, ha dato vita ad una comunità composita di attori, registi, performer, spettatori, operatori, studiosi. Una full-immersion in quattordici giorni di spettacoli, fra teatro e danza, che apre un focus sui diversi linguaggi della scena contemporanea. Festival ricco di idee, di modalità, di temi, di strategie, sotto il titolo “Se non vedi, non credi…”. E noi abbiamo visto, intanto, alcune delle proposte in cartellone.

 

Da solo, sulla scena vuota, Simon Tanguy, vestito elegantemente di bianco (nella foto ndr.), dà vita ad una performance coreografica di grande energia per un racconto, “Japan”, sulla poesia del corpo a terra: un corpo insonne, che sogna, che vive, che muore. Il giovane danzatore e coreografo francese, – trapiantato in Olanda, con pratica giovanile di judo perchè sognava di diventare un samurai – esplora il vocabolario fisico e poetico dell’agonia, come se fosse prossimo alla morte, ingaggiando un combattimento estenuante con se stesso o con un invisibile nemico. Una battaglia che procede per contrazioni, rilassamenti e sospensioni di movimenti di tutto il corpo. Sono le fasi del collasso, dello svenimento, del risveglio, dell’esplosione prima della dipartita, del coma terribile e brutale, della caduta del corpo.

 

La drammaturgia dei movimenti che il danzatore crea, è legata alla gravità ed al pavimento, alla dimensione orizzontale, che però tradisce un’aspirazione verticale. Da questo vocabolario amalgamato Taguy fa scaturire una musicalità dal battito dei piedi, delle mani, della voce, che si interrompe bruscamente, che sconvolge, si anima, si scioglie. Un’armonia free-jazz leggera e velocissima che, in venti folgoranti minuti, racchiude una vasta gamma di stati emotivi di grande potenza. L’unica perplessità rimane sulla scelta del titolo.

 

Lo spettacolo Ascesa e caduta, tratto del testo di Brecht Ascesa e caduta della città di Mahagonny. del gruppo toscano Kinkaleri, è ambizioso quanto debole. Bella l’idea drammaturgica, bravissimo l’interprete Marco Mazzoni, un autentico one-man show; ma, alla prova della resa scenica, funziona poco. Dopo quindici minuti il meccanismo performativo è già logoro. Un lunghissimo tavolo diventa il luogo dell’azione. I personaggi sono una moltitudine di giocattoli in miniatura presi dai cartoon, dal cinema, dalle fiabe, dall’ordinario, e alcuni ritagliati su sagome di legno.

 

Con l’apporto delle emblematiche didascalie brechtiane che commentano le varie sequenze, l’attore, gesticolando e mutando espressività, muove quella fauna di pupazzetti con maestria conferendo a ciascuno voci e toni differenti. Il testo di Brecht, degli anni Trenta, è una denuncia graffiante contro il capitalismo, il consumo indiscriminato e senza fine, che si esaurisce nell’aridità superflua e venale della borghesia. Mahagonny ne sarebbe diventata il simbolo, il luogo di un’utopia negativa, dove il denaro paga tutto e la sua mancanza è assenza di tutto, in primis di moralità. Da questo presupposto lo scrittore tedesco fa quadrare un amaro bilancio di vita a cui nega ogni possibile via di scampo.

 

Tra musical e melodramma l’opera sviluppa, nell’arco di una parabola, la fondazione della città, la sua crescita all’insegna del dogma del piacere e del denaro. Poi segue il tarlo corrosivo della noia, che prende gli abitanti quando i confini del piacere si denunciano angusti e tirannico il potere del denaro. Sicchè Jim, che non ha di che pagare da bere, è condannato alla sedia elettrica, mentre l’assassino che può pagare il tribunale viene assolto. La visione dello spettacolo comporta la conoscenza della vicenda, altrimenti si coglie ben poco. Ancor meno della denuncia. Il resto è puro gioco. Un racconto snocciolato a mo’ di favola.

 

Un più tradizionale allestimento è “La morsa”, di Luigi Pirandello, messo in scena da Arturo Cirillo, accanto a Sandro Lombardi e Sabrina Scuccimarra. “La morsa” non è solo quella stretta interrogazione che un marito fa a una moglie che lo tradisce, ma è una condizione fisica e mentale nella quale tutti e tre i personaggi della vicenda (lui, lei e l’amante) sono compressi, coatti e costretti. Centro della vicenda è l’ipocrisia della media borghesia italiana, come solo Pirandello è in grado di descriverla e di farla parlare: con quella lingua tutta allusiva, sospesa, sincopata. Appare un mondo di mediocri, incapaci di grandi sentimenti e generosità.

 

Una tragedia del vuoto in cui i personaggi si esprimono attraverso una recitazione immedesimata e straniata allo stesso tempo, dando voce alle battute ma avvolte anche alle didascalie. Così, una comune tragedia famigliare che si consuma in una stanza di una casa di provincia, raccontata attraverso un insieme si oggetti rinchiusi in umide bacheche, diventa lo specchio di una condizione umana e sociale appassita e mummificata. Una terra di paludi ora bonificate, che fanno sentire il loro suono attraverso canne mosse dal vento e animali della notte, dove sembra però che il ristagno delle acque sia diventato quello dei sentimenti, il pestifero acquitrino delle colpe e delle condanne, che gli uomini inventano per punire se stessi.

 

Al Teatro India di Roma, fino al 18 settembre.

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