A rivederci in paradiso!

Omelia di Ermanno Rossi, op, in occasione della celebrazione esequiale di Valentino Ferrari, op, che si è svolta il 28 agosto 2012 nella Basilica di Santa Maria sopra Minerva (Roma)
Funerale di Padre Valentino

Non è facile sintetizzare in pochi minuti il profilo di una persona così ricca, com’è quella di P. Valentino Ferrari, anche se gli sono stato vicino fin da quando aveva 15 anni. È questa, infatti, l’età in cui si presentò al Convento San Domenico di Pistoia. Io ero lì e stavo per finire il noviziato. Da allora abbiamo vissuto molti anni assieme e – anche se in conventi differenti – sempre in stretto contatto.

Il 15 giugno di quest’anno, nella Solennità del Sacro Cuore di Gesù – quindi in uno dei momenti culmini dalla sua malattia – P. Valentino mi ricordava la sua consacrazione a Dio, gli inizi della sua avventura divina:
«Eccomi di nuovo a casa, dopo la mia avventura ospedaliera [l’ultima trascorsa all’IDI]» – così mi scriveva in una lettera appassionata –: «non sono guarito e, al contrario, sono inoperabile.(…)
Oggi però sono avvolto da altri pensieri, dalla bella atmosfera di un ricordo, quello della mia consacrazione a Dio – che avvenne quando avevo solo dieci anni – con un voto che feci al Sacro Cuore di Gesù nel giugno 1936, quello di essere missionario.
Non ci avevo mai pensato prima, ma quel giorno lessi su un giornaletto Crociata Missionaria il racconto di un missionario che, dopo aver portato tanta gente al Signore, era stato martirizzato. Fu allora appunto che mi prese la commozione e di fronte ad un arazzo del Cuore di Gesù, che pendeva sul mio letto, mi inginocchiai e feci quel voto.
Sono certo che fu cosa da Dio perché la mia vita si cambiò.
Avevo fatto da pochi giorni la prima Comunione: da allora volli farla tutti i giorni vincendo lo scetticismo dei miei, mia mamma compresa (almeno all’inizio).
In seguito, in realtà, non andai mai in missione perché fin dal I anno di studentato la mia salute crollò; ma una monaca di Querceto che era mia "madrina" mi scrisse: "Lei sarà missionario in Italia". Così fu, perché da tutte le parti del mondo ho avuto tanti giovani che hanno ascoltato le mie lezioni, tutte rivolte alla difesa ed alla propagazione della nostra Fede!
Oggi dunque è per me festa».
 
In quella stessa lettera mi ricordava un altro episodio – questa volta tragico – che ha segnato la sua vita e che ha rivissuto negli ultimi giorni di ospedale:
«Ma una cosa mi turba l’anima….
Quattro anni dopo il mio voto morì il mio babbo che era l’unico sostegno di una famiglia composta da lui, mamma, mia sorella maggiore Annunziata (24 anni), mia sorella Alma (20 anni), io e mio fratello (6 anni).
Il colpo fu grosso …».
 
Che cos’era avvenuto?
Era in villeggiatura in montagna, solo col babbo, quando una notte entrò nella sua camera d’albergo e lo trovò morto. Tornò in camera, si vestì, andò a chiamare la proprietaria dell’albergo, le dettò due telegrammi: una per la nonna materna che era a Grosseto e uno per la mamma che era rimasta a casa col fratellino Maurizio. Lo choc era stato forte; ma aveva reagito con un coraggio che non era certo quello di un adolescente.
Il 21 agosto mattina – quindi pochi giorni fa – ero appena entrato nella camera della clinica in cui è morto e gli ho chiesto: «Come va, Valentino?». Mi ha risposto: «Ho passato una notte che non augurerei al peggiore di miei nemici».

Che cos’era successo?
72 anni fa, in quella notte, moriva il babbo. Padre Valentino l’aveva rivissuta quasi fosse una realtà di quel momento.
 
Ecco un aspetto della sua personalità: la sua capacità di vivere in profondità le situazioni degli altri. Egli piangeva con chi piangeva. In questa assemblea c’è chi ne ha fatto l’esperienza.
Questa sua caratteristica è stata un suo pregio formidabile, ma è stata anche la causa di non pochi dolori e disavventure. Era un uomo che non poteva credere che altri lo ingannassero.
Ho sempre notato in lui la capacità di vedere il positivo in tutti. Mi ha spesso assicurato che non conosceva l’invidia. Ha sempre goduto del bene altrui come del proprio. Penso che non ci sia un frate nella nostra Provincia religiosa che non abbia ricevuto qualcosa di importante da lui: un consiglio, una lettera, l’elaborazione di un quesito giuridico, lavoro in cui era versatissimo.
Il suo curriculum è molto vasto. Aveva tre lauree: in teologia, in filosofia e in diritto canonico. Ha insegnato in più università… Ha sparso a piene mani il suo sapere. Oltretutto lo donava con grande maestria. Aveva l’arte della parola. Padre Valentino ha sempre lavorato intensamente per la Provincia e per la sua comunità. Questo fa parte della nostra storia.

Ciò che mi ha colpito negli ultimi tempi è stata la vastità della sua cultura. La sua memoria formidabile gli permetteva di citare, fino agli ultimi giorni di vita, testi in latino, che lui chiamava la sua lingua. Era capace di improvvisare splendide lezioni senza fogli e all’ultimo momento.
 
Gli ultimi anni della sua vita sono stati per lui una vera notte oscura dell’anima che lo ha attanagliato. Molte volte mi ha parlato della sua desolazione, della solitudine immensa in cui era immerso, sia per il lavoro di Dio – che sembrava essersi ritirato da lui -, sia per segreti che riguardavano altri e che riteneva di non poter manifestare.
 
Un aspetto del tutto peculiare della sua personalità è stato la pienezza di adesione al suo carisma domenicano: la passione per la Chiesa e per la verità. Tutti i suoi studi erano orientati alla difesa dell’ortodossia. La sua cultura teologica, filosofica e di diritto l’ha messa a servizio degli altri e per la salvezza delle anime. Ho sentito più volte persone qualificate dirmi: padre Valentino era il vero domenicano.

Anche prima di morire ha manifestato questo suo amore per san Domenico. Due citazioni di cronaca a questo riguardo.
La prima è di padre Fabio Ciardi, degli Oblati di Maria Immacolata, professore presso la facoltà del Claretianum, che andava nella sua stanza d’ospedale per celebrare la Messa. L'ha scritta nel suo blog:
«Mi rimproverava di non conoscere bene san Domenico e mi invitava a studiarlo, perché è un gigante nella Chiesa. Ma ogni giorno, alla fine della messa[1], esprime la gioia dei due nostri carismi (o tre, quando veniva anche una suora ugualmente ricoverata) uniti nella celebrazione eucaristica.
Nella festa di san Domenico, il 26 agosto, era particolarmente contento di poter celebrare la messa. Anzi, il giorno prima, essendo io andato nel pomeriggio, aveva voluto che anticipassi la festa seguendo il formulario del santo. Quel giorno mi domanda: "Quando è morto il tuo fondatore?". E fa subito i calcoli di quanti anni lo separano da Domenico: "Così tanti secoli, ed eccoli qui insieme, uniti". Ma questo appunto è un ritornello quotidiano: l’unità dei carismi, l’unità di tutte le vocazione nella Chiesa, semplicemente l’unità».

Ad un’amica – che lo ha molto aiutato coordinando il flusso delle persone che si recavano al momento del pasto per farlo mangiare – ha confidato:
«Sento una forte presenza di san Domenico. Lo sento anche materialmente perché mai come in questi giorni ho avuto contatto con i terziari, che rappresentano la parte spirituale dell’Ordine domenicano. Per ore sono stato con i terziari, al telefono con le monache di Monte Mario».
 
Ma ciò che ha spalancato la sua anima in una dimensione veramente universale – e l’ha resa pienamente domenicana – è stato il suo incontro con Chiara Lubich, la fondatrice del Movimento dei Focolari, che lui ha conosciuto benissimo fin dal 1950. Da allora, il domenicano ardente difensore della fede, aveva in cuore tutta la Chiesa in tutte le sue espressioni, anzi tutta l’umanità. P. Valentino ha vissuto con passione l’ansia dell’ut omnes di Gesù: «Che tutti siano uno».

Ecco come ne parlava in una intervista ad un giornalista di Città Nuova.
«Siamo agli inizi del febbraio 1950 – egli scrive – l’Anno santo indetto da papa Pio XII e il giovane Valentino sta preparando la sua tesi di laurea nel convento di Santa Maria sopra Minerva: invitato da un confratello, fa visita al focolare femminile, allora nel quartiere della Garbatella, dove incontra Graziella De Luca. Sconcertato soprattutto dalla gioia che traspare in lei, decide di approfondire la conoscenza, partecipando più tardi ad un raduno tenuto dalla stessa Graziella in corso Trieste.
Tra i presenti, quasi tutti laici, Valentino insieme al confratello si sente a disagio. Il motivo: "Si erano invertite le parti: un laico, anzi una laica predicava, mentre noi sacerdoti ascoltavamo" (il tutto va inquadrato ovviamente nel contesto dell’epoca, in una Chiesa ancora preconciliare).
Il giovane domenicano supera il suo disappunto attribuendosi il compito di "controllare" l’ortodossia dell’oratrice, sennonché "pian piano – continua il suo racconto – quei discorsi cominciavano a far presa su di me: lei non enunciava verità dottrinali o ascetiche, né faceva pie meditazioni, ma raccontava esperienze. Parlava di realtà soprannaturali con grande semplicità, come avrebbe raccontato le sue faccende domestiche".
Fra l’altro rimane colpito dall’esempio dei vasi comunicanti portato da un focolarino del gruppo, Giulio Marchesi, per spiegare la realtà del corpo mistico.
Per Valentino è un richiamo alla "comunione d’anime" realizzata anni prima con alcuni giovani confratelli e poi dolorosamente interrotta: un’esperienza piuttosto insolita in un’epoca in cui c’è la tendenza, fra i cristiani, a percorrere individualmente il cammino verso Dio».
 
[Io, P. Ermanno, lo posso testimoniare perché ero allora a Firenze con lui – nel convento di Santa Maria Novella, dove si era trasferito lo studentato della Provincia Romana, proveniente da Bibbiena – e condividevo queste sue aspirazioni].
 
Continua l’intervistatore:
«Da allora egli cerca altre occasioni per attingere a quel cristianesimo vivo e gioioso appena scoperto. L’uomo di cultura portato alle elucubrazioni mentali, che è lui, rimane incantato dagli episodi di vita evangelica nel quotidiano, dalla "sapienza" e dalla limpidezza dei primi seguaci di Chiara Lubich. Prima però di riconoscere nell’Ideale dell’unità l’essenza del cristianesimo e di aderirvi incondizionatamente, deve superare non pochi dubbi dovuti alle perplessità della Chiesa riguardo al Movimento, allora sotto studio».
Fin qui il giornalista intervistatore.
 
Termino con la lettura di una lettera che P. Valentino ha scritto il 7 ottobre 1981.
Ha un titolo: Lettera di commiato ai confratelli. È, dunque, una lettera che P. Valentino ha scritto per questo momento.
«Cari confratelli della Provincia Romana,
quando leggerete questa mia lettera io avrò lasciato questo mondo: è dunque il mio ultimo saluto.
Queste sono le ultime parole che vi rivolge uno che è vissuto con voi oltre quarant’anni.
Che dirvi? Avevo solo 15 anni quando sonai alla porta del convento di San Domenico di Pistoia per chiedere l’abito che il nostro Santo Fondatore ci ha dato.
Mi aveva invitato ad entrare nell’Ordine P. Santilli e mi ci aveva accolto il Provinciale P. Silli.
Quest’anno 1981 Dio ha chiamato a sé l’uno e l’altro. A loro debbo dunque tanta gratitudine. Soprattutto debbo esser grato a P. Silli che per tutti gli anni della mia formazione fu Provinciale e mi capì, mi aiutò, mi difese: mi volle, poi, sempre tanto bene e fu vero amico a me e ai miei familiari. Ho sofferto davvero per la sua morte: che il Signore lo accolga nel suo amore.
Dopo di lui tanti ancora dovrei ringraziare: alcuni che mi hanno preceduto nell’altra vita, altri che servono tutt’oggi il Signore sulla terra.
Tanti nomi mi vengono alla mente: maestri, compagni di studentato, giovani verso i quali a mia volta esercitai l’ufficio di maestro, superiori, confratelli cari, coi quali vivemmo insieme, Padri ai quali aprii l’anima mia in confessione. Non vorrei trascurare nessuno.
In verità io debbo ringraziarvi tutti perché tutti mi avete voluto molto bene, perché tutti mi avete stimato molto al di sopra dei miei meriti. Anzi affetto e stima vi hanno troppo nascosto i miei demeriti. Mi avete sempre aiutato. In verità vi chiedo di continuare ancora quest’opera di fraterno affetto pregando per l’anima mia perché solo Dio sa quanto abbia bisogno dei vostri suffragi.
Vi prometto che, se arriverò in paradiso prima di qualcuno di voi (perché, dopo tutto, vi auguro una lunga vita) farò del mio meglio per tirar su presto chi fosse ancora in purgatorio.
Come vi ho detto, non ho niente da perdonare a nessuno perché non c’è stato nulla e, se qualcosa vi fosse stato, da parte mia l’ho già perdonato da un pezzo. Vi chiedo invece perdono per le mie mancanze: anzitutto per non aver dato alla nostra comunione fraterna quell’apporto di vita e di santità che avrei dovuto; poi, per aver a volte criticato qualche confratello; infine se a qualcuno, con o senza mia colpa, ho recato dispiacere o danno, gli chiedo di usarmi misericordia.
Non sono stato capace di fare un gran che in nessun campo, ma voi mi avete voluto bene lo stesso, così come Dio ci ama immensamente. È questo il bello della carità: che ci si accetta come siamo.
Allora con gioia, nella speranza che Dio stesso – per intercessione di Maria e di San Domenico e di Santa Caterina, mi abbia perdonato -, vi dico: A rivederci in paradiso!
Vostro aff.mo
P. Valentino»
 
P. Valentino ha aggiornato questa lettera, con delle postille, più volte nel corso degli anni seguenti ed ha voluto che la portassi a conoscenza di tutti, lasciandomela in una cartella sul suo tavolo di lavoro.
Ho detto tutto di P. Valentino? No!
Penso, però, che si continuerà a parlare di lui.
 



[1] Scrive padre Fabio: «Sono andato quasi ogni giorno a celebrare la messa nella sua stanza d’ospedale. Lui, che era molto ligio al diritto canonico e alle norme liturgiche, in altre circostanze non avrebbe forse approvato una messa in stanza, ma ormai… “E così anche oggi abbiamo celebrato la messa clandestina”, diceva ridendo, “come nei campi di concentramento…”. Dal suo letto concelebrava con la stola posata sul lenzuolo».

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