A Ravenna non solo mosaici
Ravenna non finisce di stupire e continua a valorizzare i propri monumenti sia di epoca romana che bizantina con sempre nuove iniziative. Crescente, ad esempio, è negli ultimi anni il numero di visitatori-pellegrini anche esteri attirati dagli “Itinerari della fede” predisposti dall’arcidiocesi di Ravenna-Cervia: si parla di 400 mila presenze l’anno lungo cinque tappe che spiegano, attraverso i meravigliosi mosaici delle chiese ravennati, il cammino che fa un cristiano.
Si inizia dal Museo arcivescovile della cattedrale con la cappella di Sant’Andrea, per focalizzarsi sulla figura di Cristo. Si prosegue col Battistero Neoniano per scoprire il battesimo, con la basilica di San Vitale per l ‘Eucaristia (qui infatti i gruppi sostano di solito per la messa), col Mausoleo di Galla Placidia, luogo preposto alla contemplazione del Paradiso, e si conclude con la basilica di Sant’Apollinare Nuovo per la catechesi sulla comunione dei santi e sulla Chiesa.
Ravenna però non è solo tesori bizantini. Tre suoi monumenti funebri basterebbero da soli a farla conoscere in tutto il mondo. Partiamo da quello evocato da Gabriele D’Annunzio in un celebre sonetto dedicato alla città romagnola, il cui inizio è: «Ravenna, Guidarello Guidarelli/ dorme supino con le man conserte/ su la spada sua grande. Al volto inerte/ ferro morte dolor furono suggelli». Il poeta ricorda il condottiero al servizio di Cesare Borgia ucciso a tradimento nel 1501, la cui bellissima effigie scolpita sulla sua lastra tombale ha sempre attratto tanti cuori femminili. Un tempo nella basilica di San Francesco, nel cuore storico della città, ora quest’opera attribuita a Tullio Lombardo fa parte dei tesori più preziosi del Museo d’Arte di Ravenna (MAR), nell’ex complesso abbaziale di Santa Maria in Porto.
Di un’altra tomba eccellente va orgogliosa l’antica capitale imperiale: quella di Dante Alighieri, che qui trascorse gli ultimi anni della sua tormentata esistenza, conclusa nel 1321. Si trova all’interno di un tempietto neoclassico presso i due chiostri cinquecenteschi di San Francesco, la medesima basilica che ospitò le spoglie di Guidarello e dove vennero celebrati i funerali del Poeta. Sul sarcofago di età romana è scolpito l’epitaffio in versi dettato da Bernardo Canaccio nel 1366: lo stesso Dante vi si descrive (ne do una traduzione dal latino) «esule dalla patria terra, cui generò Firenze, madre di poco amore». Un bassorilievo del 1483, opera di Pietro Lombardo, lo raffigura pensoso davanti ad un leggio, al sommo del sepolcro.
Andando a ritroso nel tempo, ci attende – più decentrato, in severo isolamento all’interno di un piccolo parco – il Mausoleo che Teodorico, re degli ostrogoti, si fece erigere verso il 520. In bianca pietra d’Istria, a pianta centrale decagonale e su due ordini, è un’affascinante mix di monumentalità romana e gusto barbarico con qualche influsso siriaco. Sorprendente la copertura: una calotta formata da un enorme monolite di circa 230 tonnellate, orlato da 12 occhielli che servirono a issarlo. Nella camera superiore, completamente vuota, rimane solo un sarcofago di porfido rosso privo di coperchio: la sepoltura del re, le cui spoglie vennero rimosse durante la dominazione bizantina. Nella stessa epoca il Mausoleo venne trasformato in chiesa dedicata alla Madonna: "Santa Maria ad Farum", per la vicinanza di un porto dotato di faro.
Ma altro ancora ci riserva questa città, ed è la sua stupefacente produzione di bellissimi sarcofagi paleocristiani dalla tipologia tutta particolare. Tramite il suo porto di Classe, Ravenna prima ancora di diventare capitale fu influenzata dall’arte orientale greca e siriaca. Ed è proprio tale influsso a caratterizzare i sarcofagi ravennati, distinguibili dai romani per le dimensioni maggiori; per l’essere scolpiti su quattro lati e non solo su tre; per il coperchio a tetto a due spioventi o a botte, invece che piatto; e infine per le figure e gli elementi decorativi ridotti, a differenza delle affollate composizioni di quegli altri.
Ravenna ne possiede numerosissimi esemplari all’interno, ma anche all’esterno delle antiche chiese, nei chiostri dei monasteri, nel Museo nazionale presso il complesso di San Vitale e nel Museo Arcivescovile della Cattedrale. Scolpiti in genere in marmo greco, alcuni sono veri capolavori di raffinatezza, alternando figure umane (apostoli e santi) a quelle di animali (pavoni, colombe agnelli), cui si aggiungono croci gemmate e monogrammi di Cristo con le lettere apocalittiche alfa e omega pendule; e poi nicchie decorate, rami fuoriuscenti da vasi, tralci di vite, ghirlande, candelieri… I protagonisti e i simboli della salvezza effigiati su candide arche, la “buona notizia” scritta sul marmo!
Nella basilica di Sant’Apollinare in Classe si ammirano dieci di questi esemplari disposti lungo le navate: datati dal V all’VIII secolo, testimoniano il graduale passaggio da una concezione decorativa tipicamente occidentale, legata all’aspetto corporeo delle cose (il sarcofago dei Dodici Apostoli), a una di origine orientale nella quale il concreto si stempera del tutto in simboli resi in modo astratto (i sarcofagi degli arcivescovi Giovanni e Grazioso), passando attraverso una fase allegorica, caratterizzata dall’uso di animali ed elementi vegetali resi in forme molto realistiche ma in funzione simbolica (il sarcofago degli agnelli e palme).
A sua volta la cattedrale esibisce nella cappella della Vergine le arche del beato Rinaldo da Concorezzo, arcivescovo ravennate morto nel 1321, e di san Barbaziano, che fu confessore di Galla Placidia. Quella del primo personaggio risale alla metà del V secolo e presenta nella parte anteriore, tra due colonne e altrettante palme, Cristo con la mano destra protesa e il libro delle Scritture aperto nella sinistra; dal basamento del suo trono sgorgano i quattro fiumi dell’Eden; ai lati, incedenti verso il trono, sono raffigurati Paolo e Pietro, entrambi con una corona in mano (Pietro anche con la croce). I tre personaggi ritornano con qualche variante nell’arca di san Barbaziano (seconda metà del V secolo): Cristo benedicente con il libro aperto sta fra san Paolo, anche lui con un libro in mano al posto della corona, e san Pietro senza corona ma recante la croce.
Un altro dei più bei sarcofagi ravennati, miracolosamente sopravvissuto ai bombardamenti dell’ultima guerra, si trova nella basilica di Santa Maria in Porto Fuori: custodisce le reliquie del beato Pier degli Onesti, detto Pietro Peccatore, la cui vicenda è profondamente legata al bassorilievo bizantino con l’immagine della Vergine Orante, più conosciuta come Madonna Greca, venerata in questo santuario mariano. Dante lo ricorda nel XXI canto del Paradiso («e Pietro Peccator fu nella casa/ di Nostra Donna in sul lito adriano»). Anche in questo manufatto del V secolo, raffigurante il Redentore tra gli apostoli, ricorre l'offerta delle corone fiorite: un richiamo alla corona di giustizia e a quella di vita citate nella Scrittura, composte da fiori sempre freschi, simbolo dell'eternità di Dio.
E infine ciò che resta dell’arca sepolcrale appartenuta a Ecclesio, vescovo di Ravenna fra il 522 e il 532 al quale si deve la costruzione di San Vitale: la fronte del suo sarcofago, già esposta in questa splendida basilica bizantina prima del suo restauro (primavera del 2014) e ora trasferita a Santa Maria Maggiore, chiesa che, secondo le fonti storiche, Ecclesio fece costruire su un terreno di sua proprietà. Il frammento presenta, in un rilievo molto piatto, il consueto simbolismo dei due pavoni e di altrettanti miniaturistici cervi ai lati di una croce gemmata.
Con ciò ho detto tutto sugli altri tesori di Ravenna? Manca un tassello importante: il nuovo parco archeologico di Classe. Ma di ciò parlerò in un futuro itinerario.