A proposito di una Traviata
Diciamolo subito: ogni volta che si rappresenta quest’opera – la più popolare di Verdi – si trema (quando lo si vuol fare per bene, ovviamente). Il dramma di Piave e Verdi, tratto dalla Dame aux camélias di Dumas figlio, scandaloso per i contemporanei, fiasco a Venezia alla Fenice nel 1853 e resuscitato nel 1854 sempre a Venezia con alcune modifiche dell’autore e una nuova compagnia di canto, è difficile. La storia, quella della cortigiana – oggi si direbbe escort – che s’innamora del ragazzotto di provincia, ma deve lasciarlo per salvare la morale borghese e morir di tisi, per amore, è forte e commovente, e pericolosa.
Violetta, la protagonista, musicalmente e scenicamente dev’essere ferrata. Nel primo atto vocalizza virtuosisticamente come una donna di piacere – soprano leggero –, nel secondo e terzo atto, ferita a morte dall’amato Alfredo, segue un “canto di conversazione” pressoché ininterrotto, drammatico, doloroso ed etereo: un’altra voce, un’altra persona, dunque. Insomma, due cantanti in una. Impresa difficilissima, riuscita dura anche a star come la Callas, la Tebaldi, la Caballè, la Dessì. Dura anche per i direttori, impegnati a dare leggerezza a un'orchestra rifinita come non mai, trasparente eppure a tratti esplosiva e brillante. Ci vuol gusto, sensibilità, “unità” con lo spirito di Verdi, e non è facile. Ascoltare, per crederci, le edizioni dirette da Toscanini, Votto, Giulini, Kleiber, Muti, eccetera.
Veniamo alla Traviata della Scala. Giustamente, il regista russo Dmitri Tcherniakov l’ha attualizzata: lo fece anche Verdi nel 1853, anche se poi la dovette allestire con costumi settecenteschi, ed oggi l’opera in genere si dà con abiti ottocenteschi, il che sarà tradizionale, ma non risponde del tutto al gusto dell’autore.
Bene dunque l’ambientazione contemporanea. Purché non si esageri. I due preludi, ad esempio, andrebbero ascoltati a sipario chiuso, tanto dicono già tutto, senza il commento visivo di Violetta davanti allo specchio, insieme a una rossa Annina con la cresta, una confidente troppo invadente registicamente, mentre si tratta di una figura di secondo piano.
Che poi l’ambiente sia piuttosto kitsch, con ballerini scatenati come in una discoteca, potrà dispiacere, ma si capisce. Certo, la brava cantante russa Diana Damrau ha il coraggio di cantare e recitare dinamicamente per tutto il primo atto, che è ricco di sfumature, di passaggi psicologici e lo fa con disinvoltura.
Nel secondo atto, nella casa di campagna di Violetta e Alfredo, lui canta i suoi “bollenti spiriti” trasformato ormai in un casalingo che taglia carote e prepara le tagliatelle: e qui la scena non va d’accordo con la musica, neanche con la cabaletta “Oh mio rimorso, oh infamia", dove il polacco (bravo) Piotr Beczala sembra spaesato sul palcoscenico: la musica è violenta, ma la scena è tutt’altra cosa.
Quando arriva papà Germont con le sue riflessioni rotonde e inesorabili, l’aria si scalda: qui è talmente alta la pressione drammatica e l’ispirazione musicale che si sarebbero desiderati meno gesti, perché la musica dice tutto con sottigliezze impalpabili, e si sa che Verdi era nemico di grida, singhiozzi, risolini e affanni gigioneschi che purtroppo affiorano.
Nell’ultimo atto, quando Violetta resiste alla morte, rimpiange la vita e poi si lascia andare in un finale che il direttore Daniele Gatti giustamente “resuscita” nei suoni trasparenti dei violini – si tratta della versione 1853, non quella che sempre si ascolta –, si sarebbe desiderato una rarefazione dei gesti, ma il regista vuol far vedere l’affanno, la ribellione, l’amore alla vita. D’accordo, purché ci si sappia fermare al momento giusto.
S’è parlato di Daniele Gatti, che ha diretto l’edizione integrale, anche con la cabaletta (brutta) di Germont padre “No, non udrai rimproveri”. Gatti è scrupoloso, ha cercato di metter insieme buca e palco (talora a fatica) e di sostenere i cantanti. Certo, ha privilegiato ottoni e percussioni sugli archi, evidenziando in Violetta quasi un'eroina wagneriana, una ex donna perduta che si redime a fatica. Interessante, come molte sfumature dei legni.
Spettacolo molto visivo, un po’ da fiction, con alcune intuizioni che tuttavia opprimono un poco la musica. La domanda che viene è se certi registi la amino l’opera, la comprendano, abbiano la pazienza di lasciarsi “consigliare”, nel caso da un Verdi, nemico del sovrappiù, dell’eccesso, perché in partitura ha detto e scritto tutto, c’è solo da saperlo estrarre e presentare. Con la coscienza che lui è un tipo difficile. Ma appagante.