A proposito di Love Parade

Una riflessione dopo la tragica kermesse musicale in Germania: specchio di una realtà sfuggente che mescola ideali e individualismo esasperato.
Love Parade

Diciannove morti, oltre cinquecento feriti: un bollettino di guerra degno dell’Afghanistan o dell’Irak. E invece arrivano dall’ultima Parata dell’Amore, una di quelle kermesse da sballo ipnotico che tanto piacciono alle orecchie annoiate di molti giovani occidentali.

 

Una tragedia. Ancor più assurda e ingiustificabile se consideriamo l’età delle vittime e le finalità della manifestazione. Ma anche uno shock anafilattico sul quale i media e i sociologi planetari s’interrogano in queste ore azzardando pareri d’ogni genere, e preconizzando scenari più o meno attendibili.

 

Non vorremmo infilarci anche noi nei soliti risucchi dell’onda emotiva che sta attraversando le coscienze sporche d’Occidente, ma alcune considerazioni ci paiono comunque doverose. Prima tra tutte il distinguo tra il pressapochismo e l’approccio anarcoide tipico di happenings oceanici di questo tipo, e l’organizzazione solitamente ben più seria che contraddistingue mega concerti, festival e altri eventi di massa. Certo qualunque assembramento di persone è sempre a rischio, ma con le debite precauzioni e il know-how di veri esperti in materia, il rischio carneficine di questo tipo apparterrebbe solo al campo comunque inestinguibile dell’improbabile o dell’inimmaginabile. Giusto per fare un esempio: a Torvergata per il Giubileo del 2000, tra i milioni di giovani assiepati non s’è contato più di qualche malore…

 

L’altro dato saliente che la tragedia di Duisburg ci pare abbia messo in evidenza è la natura bipolare di questo tipo di manifestazioni. Da un lato l’istinto collettivista che le promuove, dall’altro l’individualismo esasperato in cui spesso s’avvitano i partecipanti (la techno, così come i rave party sono tutti giocati sull’estraniazione dell’individuo dal contesto che lo circonda); da un lato una certa componente idealista che accomuna la maggioranza dei partecipanti, dall’altro i mercimoni d’ogni genere che li accompagna.

 

E potremmo continuare all’infinito in un escalation di contraddizioni e d’ossimori sempre più estremi, cercando impossibili sintesi fra anima e carnalità, noia e passione, ipnosi ed ipertrofia emotiva, sensazionalismo e voglia d’autenticità, schiavitù tossicodipendente e libertà di pensiero. Tutto insieme, tutto mischiato, tutto regolarmente sfuggente: in un gran coacervo d’esaltazione collettiva dove molto raramente un’idea riesce ad incarnarsi coerentemente in un gesto, e i pensieri in parole pregnanti. Dove ogni attimo che il presente scodella non è un frammento d’eternità, ma piuttosto l’analgesico col quale neutralizzare i fantasmi del passato o gli incubi del futuro.

 

La verità è che questa, come mille altre Love Parade, sono lo specchio distorto e iper-realista di una realtà socio-culturale che si porta addosso le stimmate degli stessi mali, i segni delle stesse paure e, sia pure nascosti sotto i coriandoli del pittoresco e i cingoli dell’estremo, le medesime ansie di redenzione.

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