A proposito delle violenze per il Corano bruciato
Assistiamo a reazioni piuttosto diversificate all’ondata di rabbia popolare che ha fatto seguito alla scoperta di copie del Corano date alle fiamme da militari americani. Nonostante la motivazione addotta dalle autorità dell’esercito – il timore che prigionieri afghani potessero scambiarsi messaggi in codice attraverso il libro sacro – e le successive scuse ufficiali del presidente Obama, sono ormai vari giorni che le manifestazioni di protesta continuano. Anzi si stanno allargando a varie città del Paese, oltre che essersi diffuse anche in Pakistan.
L’accaduto dovrebbe offrire al mondo occidentale un’opportunità di riflessione, che non pare essere colta nella giusta prospettiva. Solo La Stampa di Torino ha riportato nel suo blog "The Vatican Insider", un’intervista significativa rilasciata all’agenzia di stampa Fides da padre Stanley Fernandes, un gesuita indiano che dirige il Jesuit refugee service nell’area del subcontinente indiano.
«Il rispetto dei sentimenti religiosi è la chiave per conquistare il cuore degli afghani. È un fattore molto importante, che tutte le forze occidentali e gli operatori internazionali devono tenere bene presente». È la dichiarazione perentoria del religioso che passa lunghi periodi in Afghanistan, dove la sua congregazione lavora da sette anni, portando avanti opere di carattere umanitario e lavorando nel settore dell’istruzione e della formazione professionale.
Pur non giustificando la violenza, che ha già fatto una trentina di vittime, il gesuita indiano riconosce che «la gente è indignata perché l’episodio ferisce i sentimenti religiosi, un tema capace di infiammare gli animi. Non c’è giustificazione alla violenza, ma è quanto accade se si toccano questioni religiose. Le scuse ufficiali da parte degli Usa sono arrivate, ma credo ci vorrà tempo prima che la situazione torni alla calma».
L’episodio, purtroppo, non ha aiutato l’opinione pubblica occidentale a rendersi davvero conto che incidenti del genere feriscono i sentimenti degli afghani, e dei musulmani in genere, compromettendo la possibilità di costruire un clima di fiducia reciproca, già difficile da stabilirsi con la presenza di una forza militare straniera che, nonostante tutti i proclami da parte dell’Occidente, a livello locale non è percepita in termini di cooperazione e di aiuto al ristabilimento della pace.
Giustamente, nota padre Fernandes, «quando si opera nel contesto afghano, dove l’Islam è maggioritario, è fondamentale farlo rispettando profondamente la cultura e la religione della popolazione locale. In questi casi la relazione fra le forze internazionali e la gente locale è molto delicata; si stabilisce un fragile equilibrio: occorre, quindi, prestare grande attenzione alla sensibilità e al contesto locale per custodirlo». Sembrerebbero aspetti ovvi, ma purtroppo non lo sono se si considerano le modalità con cui la notizia è riportata dai media.
Nonostante politologi e diplomatici siano ormai convinti che la religione abbia un ruolo fondamentale negli equilibri e nelle relazioni fra Stati, sembra che continui a mancare la necessaria sensibilità a cogliere l’aspetto religioso come parte integrale di culture e Paesi, che si trovano fuori dell’Europa o dell’Occidente in generale. La conoscenza delle lingue, delle culture e delle rispettive sensibilità dei popoli con cui si entra in contatto dovrebbero essere dei requisiti imprescindibili per operatori che si trovano ad agire sul campo a qualsiasi livello: umanitario, commerciale, diplomatico e anche militare.
L’Occidente è tuttora spesso spaventato dalla possibilità di una guerra santa, ma episodi come quello accaduto in Afghanistan non favoriscono certo un’immagine migliore del mondo occidentale presso il cosmo Islam.