A piedi scalzi a Treblinka

Nel campo di sterminio nazista realizzato in Polonia durante l'occupazione tedesca, secondo solo ad Auschwitz, sullo sfondo di una delle più grandi tragedie vissute dall’uomo contemporaneo, lo scrittore russo Vasilij Grossman celebra la vita che non muore. La Madonna a Treblinka è un breve scritto  la cui profondità e bellezza attraversano come una lama di luce l’oscurità, la piattezza e l’inutilità di tanta carta stampata odierna
la madonna a Treblinka

Dei quattro campi di sterminio aperti dai nazisti dal 1941 al 1942 nell’est della Polonia occupata, l’ultimo ad entrare in funzione fu quello di Treblinka, dal nome del villaggio presso il quale fu costruito, oggi nel comune di Małkinia Górna, a 80 chilometri a nord-est di Varsavia. Secondo solo ad Auschwitz, vi furono uccise dalle 700 mila alle 900 mila persone. Ma a differenza di Auschwitz, quasi nulla rimane delle caserme, magazzini, baracche, torri di guardia, camere a gas ed altri edifici che costituirono un tempo lo scenario di inimmaginabili orrori.

Come se la terra stessa avesse voluto scrollarsi di dosso quelle testimonianze che nulla avevano di umano, oggi Treblinka è essenzialmente un vuoto, un luogo di pellegrinaggio irreale, come ben lo ha descritto il giornalista Massimo Jevolella, rievocando una sua visita di anni fa a questo lager:  «Dopo pochi minuti ci trovammo davanti al famoso ponte di legno: era ancora lì, intatto, talmente angusto alle due imboccature che la mia auto (una vecchia Fiat Marea) quasi stentò a passarvi. Su quello strettissimo ponte erano passati, a migliaia, i treni della morte. La strada era deserta. Poco dopo incontrammo la scritta “Treblinka” su un piccolo cartello sbiadito. Mi aspettavo di scorgere un villaggio, invece vidi solo poche vecchie casette di campagna sparpagliate un po’ a casaccio lungo la via, e nemmeno un’anima viva di contorno. Arrivammo a un bivio. A destra la via si inoltrava in un bosco: era lì che dovevamo andare.

«Fu come entrare in un sogno. Un sogno carico di angoscia e di stupore. Eravamo assolutamente soli. Nemmeno un visitatore, nemmeno l’ombra di un turista si aggirava in quel luogo. Treblinka era abbandonata, come un relitto inabissato nell’oceano del tempo. L’unico essere umano presente era il guardiano, che senza dire una parola ci staccò i tre biglietti dell’ingresso. C’erano anche dei libri e dei foglietti illustrativi. Acquistai per pochi sloty una copia di Revolt in Treblinka, di Samuel Willenberg, uno dei pochi sopravvissuti alla disperata rivolta scoppiata nel campo di sterminio nella primavera del 1943.

«Avanzammo lungo un sentiero sterrato che s’inoltrava nel bosco, nel silenzio più profondo e irreale. Fu un cammino breve e sconvolgente, che non dimenticherò mai. Si udiva solo lo scalpiccìo dei nostri passi. Ogni tanto ci guardavamo attoniti, eravamo incapaci di parlare. E all’improvviso il bosco si diradò. Apparve uno strano spettacolo: una banchina di cemento fiancheggiata da un tratto di binario, sulla destra, e un vasto campo, brullo e costellato di macigni di pietra, sul lato sinistro. Quell’ampia radura era completamente circondata dalla foresta, e oltre le cime degli alberi non si vedeva altro che il cielo, come nell’Infinito di Leopardi.

«Ecco, quella era Treblinka: erba, pietre e silenzio. In nessun modo ci eravamo preparati a quell’incontro. Non potevamo capire nulla di ciò che stavamo vedendo. Ci aggirammo come inebetiti tra quelle pietre. Non sapevamo che i nostri passi stavano ripercorrendo gli stessi brevi cammini per cui erano passati, tra l’estate del ’42 e l’autunno del ’43, più di ottocentomila esseri umani prelevati dal Ghetto di Varsavia e da altri luoghi della Polonia, della Bielorussia e della Lituania, per essere immediatamente assassinati con i gas o con dei colpi alla nuca. Quel pezzo di binario mi restò impresso sopra ogni altra cosa. Si allontanava dalla banchina piegando con una lieve curva verso occidente, e poi spariva nel bosco. Non ebbi il coraggio di scattare una sola foto».

Treblinka: «Mai l’Universo aveva visto qualcosa di così spaventoso». Sono parole di Vasilij Grossman, il celebre autore di Vita e destino, che a questo luogo ha dedicato un breve scritto, La Madonna a Treblinka, la cui profondità e bellezza attraversano come una lama di luce l’oscurità, la piattezza e l’inutilità di tanta carta stampata odierna. La Madonna a cui si riferisce Grossman è quella Sistina dipinta da Raffaello, la cui visione a Mosca, nel marzo del 1955, suscitò nel suo animo sconcerto e turbamento.

Singolare, intanto, è la vicenda di questa grande tavola raffigurante la Vergine con il Bambino che scende dall’alto dei cieli. Dalla Pinacoteca di Dresda, dove si trovava esposta dal 1754, venne prelevata con altri capolavori dalle truppe sovietiche vincitrici alla fine della Seconda guerra mondiale, e curiosamente proprio in Russia conobbe la maggiore fortuna, sia in ambito colto che popolare: oggetto di un dibattito filosofico- letterario, che coinvolse i massimi autori dell’Ottocento russo, con esiti talvolta contrastanti, da alcuni venne considerata al pari di un’icona e, frutto di rivelazioni divine, capace di suscitare esperienze estatiche; da altri invece come un grandioso esempio di arte e bellezza totalmente terrene.

«Grossman – si legge nella nota al testo italiano edito da Medusa – adotta con risolutezza questa seconda chiave di lettura, individuando nella giovane madre e nel bambino l’incarnazione somma e immortale di quell’”elemento umano” che costituisce il nucleo tematico e ideale di tutta la sua produzione letteraria».

Ma sentiamo dallo scrittore stesso cosa suscitò in lui la visione dell’opera raffaellesca, esposta al pubblico nel Museo Puskin prima di essere restituita alla sua sede originaria in Germania. «Non potevo paragonare quel subbuglio di sentimenti ai giorni di lacrime e di felicità che, quindicenne, avevo vissuto leggendo Guerra e pace, e neppure a ciò che avevo provato, durante un periodo particolarmente duro e doloroso della mia vita, ascoltando la musica di Beethoven. Finalmente compresi: l’immagine della giovane madre con il bambino in braccio non mi ricordava qualcosa che avesse a fare con la letteratura o con la musica…». È invece Treblinka a tornargli in mente, il famigerato campo di concentramento creato dai nazisti per i prigionieri politici polacchi ed ebrei.

«In principio non riuscii a capire… A piedi scalzi, lei camminava con passo leggero sul suolo pulsante di Treblinka, dal punto di scarico del treno alla camera a gas. La riconobbi dall’espressione del viso e degli occhi. Vidi suo figlio, e riconobbi il prodigio di quel volto straordinario, non infantile. Così erano le madri e i bambini a Treblinka, quando sullo sfondo verde cupo dei pini scorgevo i muri bianchi delle camere a gas, così erano i loro cuori».

«Nel tempo dei lupi – continua Grossman – la giovane madre partorì e allevò il suo bambino. E il pittore Adolf Hitler stava immobile davanti a lei nella Pinacoteca di Dresda – decideva la loro sorte. Ma il padrone d’Europa non poteva incontrare il suo sguardo, e neppure quello del bambino: loro erano esseri umani. La forza della loro umanità trionfava sul suo furore. A piedi scalzi, sul suolo pulsante di Treblinka, la Madonna di avviò con passo leggero verso il forno crematorio, portando in braccio il figlio. […] Noi esseri umani certo l’abbiamo riconosciuta, e abbiamo riconosciuto il suo bambino; lei è uguale a noi, il loro destino è anche il nostro, madre e figlio rappresentano l’umanità dell’uomo. Se l’avvenire porterà la Madonna in Cina o in Sudan, tutti i popoli la riconosceranno come l’abbiamo riconosciuta noi. […] La forza della vita, la forza dell’umanità è enorme, e neppure la violenza più feroce e sistematica è in grado di sottometterla, può soltanto ucciderla. Ecco la ragione della serenità che appare sui volti della madre e del figlio: sono invincibili. Anche nelle epoche più terribili la distruzione della vita non significa la sua sconfitta».

Anche qui, come in Vita e destino, Grossman non esita ad accostare il nazismo hitleriano al bolscevismo di Stalin, Treblinka agli orrori della collettivizzazione forzata. Tale inaudita spregiudicatezza non poteva certo essere tollerata dalla censura sovietica nel 1955, anno della stesura del saggio, agli inizi di un timido disgelo, nel cui clima si inquadrava anche l’esposizione a Mosca dei capolavori della Pinacoteca di Dresda. Si è dovuto così attendere la perestrojka di Gorbaciov per vedere pubblicato lo scritto sulla rivista Znamja, nel 1989, e per raccoglierne il messaggio: «Manteniamo la nostra fede nel fatto che vita e libertà siano inscindibili e non vi sia nulla di più alto dell’umanità dell’uomo. Questa umanità sopravviverà in eterno, e vincerà».

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