A Parigi è scoppiata una guerra asimmetrica

Gli attacchi al cuore della capitale francese, nella loro follia omicida svelano il disegno perverso e smascherano le debolezze dell’Isis. La risposta non può essere fatta solo con armi convenzionali, perché questa guerra non lo è. Serve una “santa alleanza” per la pace tra chiese e moschee
Parigi
Si susseguono i bollettini medici, bollettini di vera guerra: 89, 101, più di 120 morti… Tutto ha avuto come teatro una serata di follia, a Parigi, dove un manipolo di seguaci dell’Isis ha voluto colpire dei luoghi-simbolo della cultura laica europea e occidentale: un teatro e la musica hard rock, ristoranti e caffè, uno stadio. In ogni caso le strade di una delle metropoli più scintillanti del mondo.

 

È il momento del raccoglimento, del ricordo e della preghiera, innanzitutto, per le vittime, le loro famiglie, offrendo le nostre paure e il nostro dolore sull’altare della pace. Che Dio converta l’anima dei violenti e scaldi i cuori delle vittime di questa guerra strana e mostruosa, nel deserto siriano come nei boulevard parigini.

 

Alcune riflessioni, a caldo, a caldissimo, possono forse essere fatte a proposito di questa notte del 13 novembre 2015, una data che ricorderemo a lungo. In particolare credo che sia da sottolineare l’accelerazione della guerra “asimmetrica” che sta avvenendo nel territorio che si stende tra Siria e Iraq. L’Isis, anche perché attaccata, reagisce brutalmente esportando una guerra che la vede nel mirino di una impressionante catena di avversari: Iran, Usa, Russia, Arabia Saudita, Francia… Una guerra asimmetrica per diversi motivi: nei metodi di combattimento, innanzitutto, perché in Siria è fatta da aerei e droni, da tecnologie belliche avanzate, mentre qui in Europa viene combattuta con la disponibilità al martirio di un certo numero di giovani. Asimmetrica perché i morti europei sono ancora infinitamente minori a quelli arabi, ma in compenso hanno una risonanza mediatica mille e mille volte più ampia. Ancora, la guerra non avanza a senso unico perché le motivazioni di una parte sono pseudo-religiose, mentre quelle dell’altra parte sono piuttosto laico-razionaliste. Infine, asimmetrica è anche la paura: quella urbana che viene dal basso delle strade non è certo paragonabile a quella che viene dall’alto, dai bombardamenti.

 

Ciò spinge a dire che le reazioni alla barbarie dei terroristi non può e non potrebbe mai mettersi sullo stesso livello. Non basteranno mai le armi e nemmeno l’intelligence più sopraffina (vedi il fallimento dei servizi francesi nel caso Charlie Hebdo e ora al Bataclan) a frenare la grande ondata di violenza marcata califfato. Credo che, accanto alle necessarie misure di sicurezza che l’Europa dovrebbe varare (insieme, please!) debbano essere messe in atto armi “non convenzionali” e, direi, “religiose” nel senso etimologico del termine, cioè atte a creare legami. Quali? Una sempre migliore e attenta accoglienza degli immigrati che vengono in Europa; una “santa alleanza” tra chiese e moschee (con l’aggiunta se possibile delle sinagoghe): i terroristi, salvo pochissime eccezioni, non nascono infatti nelle moschee ma nei campi di battaglia e su Internet, e le moschee sono i luoghi dove tanta rabbia può essere canalizzata verso il bene. Infine serve una forte azione diplomatica per isolare l’Isis economicamente e politicamente prima ancora che militarmente: basta vendere armi al califfato, basta acquistare il suo petrolio, basta inviare sostegni logistici e militari.

 

Forse così questa guerra, che non finirà né domani né dopodomani, ma più in là, potrà essere vinta. Non dall’Occidente sul mondo arabo, ma dalla parte migliore dell’Occidente e del mondo arabo (cristiano, musulmano, ebreo e laico) sulla parte peggiore del mondo occidentale e arabo (poco cristiano, poco musulmano, poco ebreo e poco laico).

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