A Milano il viaggio verso la felicità di Paul Gaugain

Il diario di un pellegrinaggio. È questo forse il senso profondo della mostra milanese al Mudec, sino al 21 febbraio, che indaga nell’arte del pittore francese i suoi “racconti dal paradiso”. Da non perdere
Gaugain

Il diario di un pellegrinaggio. È questo forse il senso profondo della mostra milanese al MUDEC – sino al 21 febbraio, catalogo 24Ore Cultura  – che indaga nell’arte del pittore francese i suoi “racconti dal paradiso”, come nota il sottotitolo della rassegna.

Spirito inquieto di fine Ottocento, Paul, con l’intuizione profetica dei veri artisti, è stanco della vecchia Europa che non ha più nulla da dire. Almeno ad un ricercatore di verità come lui. Perciò, dopo un pellegrinare tra la Bretagna e la Provenza – di cui si vedono i frutti nelle opere esposte -, dopo l’amicizia drammatica con Van Gogh, e dopo aver superato l’Impressionismo, Gauguin parte per la Polinesia, alla ricerca della poesia verginale, primitiva.

 

La troverà? Invia messaggi ai suoi contemporanei e a noi, e i messaggi sono le sculture e le tele. Osservando  l’Autoritratto col Cristo giallo del 1891, dove lo sguardo è torbido e cupo, e la Donna tahitiana con fiore dello stesso anno, lo scarto è rilevante. Il primo ripete l’ossessione della ricerca del sentimento elementare, primordiale – già presente fin dalle prime opere, ben prima dell’esperienza oceanica – ed il secondo una verità poetica raggiunta, almeno per un momento.

 

Gauguin fonde insieme il modello europeo della Gioconda – le mani intrecciate sul grembo, il fiore  –e l’espressione di una bellezza arcaica, senza tempo, dipinta a larghe falde di colori “primitivi”: giallo viola marrone.

 

Paul supera le visoni atmosferiche di un Pissarro, o la lucida scomposizione delle Nature morte di Cézanne, come pure è diverso dalla drammaticità  furiosa di Van Gogh le cui Rose del 1890 gridano vita nei verdi e nei bianchi.  A Vincent, Gauguin pare rispondere nel 1899 con i suoi Fiori e gatti: i felini sembrano divinità arcaiche polinesiane, i fiori sono trattati da un pennello leggerissimo, chiaro, in trasparenza.

 

Gauguin, immerso in una cultura eterogenea che l’avvolge e lo coinvolge in sculture dove unisce sentimenti contrastanti che vuole far suoi – la Testa con corna, il Vaso a forma di donna -, sembra alleggerirsi l’anima. Schiarirla. È questo il senso de La morte del re del 1892 – un rito funebre, più visione che realtà -, e soprattutto de Le donne tahitiane sdraiate (1894). Quest’ultima tela ripropone con le tinte chiare, larghe, piene di luce una umanità gentile, sana, che parla con la sua sola presenza. Ogni forma di civiltà occidentale è scomparsa. Ci sono solo i color puri di un mondo incorrotto.

 

Paul pare nel suo pellegrinaggio aver raggiunto la meta conclusiva, ossia l’incontro col paradiso terrestre. In realtà, egli mescola finzione, sogno, visione e realismo esotico per creare un mondo incontaminato, libero da ogni legame, in un viaggio senza tregua verso una perfetta felicità.

 

L’ha raggiunta? Osservando le sue opere – e la sua vita, morrà nel 1903 – si potrebbe concludere che essa, in alcuni momenti, è stata colta. Paul è riuscito a fare una sintesi tra Europa e Nuovi Mondi, tra cultura ancestrale occidentale e mondi “altri”. Quanto dolore ciò sia costato, lo dicono la biografia e alcune opere di questa densa rassegna, dove egli – tra i primi del suo tempo – si è sentito un “uomo – mondo”. Da non perdere.

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